Buio in sala. Sipario. Le luci che accolgono per la prima volta Ajax e Panathinaikos sullo stesso palcoscenico sono quelle di Wembley, ma dei quasi centomila spettatori presenti, in pochi si sarebbero aspettati un simile incrocio per la finale di Coppa dei Campioni. È il 2 giugno 1971, piove – this is England! – e per l’Ajax di Rinus Michels è tempo di esami di maturità. Sono passati sei anni da quando il presidente Jaap van Praag ha affidato all’allora trentaseienne professore di educazione fisica la guida della prima squadra e fatto di Michels il primo allenatore a tempo pieno del calcio olandese. Cresciuto di anno in anno, il suo Ajax è però uscito a pezzi dal battesimo del fuoco del 1969, surclassato nella sua prima finale europea dal Milan di Gianni Rivera. Una lezione per Michels, che dopo quella disfatta si era convinto a mettere da parte il 4-2-4 in favore del 4-3-3, e per i giocatori, che mentre escono sul prato di Wembley hanno bene in mente la notte di Madrid. Stavolta sarà diverso, non c’è bisogno di dirlo.
Di fronte, un mito. Ferenc Puskas, che alla Coppa dei Campioni dà del tu, si era seduto sulla panchina del Panathinaikos nel 1967: al calcio greco non mancava il temperamento, semmai le idee e per quelle ci voleva la scuola migliore che l’Europa avesse conosciuto nel Dopoguerra. Il bagno nel Danubio proietta il Pao sull’Olimpo. Eliminati nei quarti i tedeschi del Borussia Mönchengladbach, i greci si sbarazzano pure della Stella Rossa e a Wembley si presentano con l’innocenza degli outsider. Arbitra Jack Taylor, che ritroverà Cruijff e parecchi altri di lì a tre anni a Monaco, quando sarà chiamato a dirigere la finale mondiale del 1974. L’Ajax, che a Puskas e alla sua Ungheria aveva sempre guardato con ammirazione e un pizzico di identificazione, può finalmente scrollarsi di dosso il ruolo di giovane debuttante. Niente brividi stavolta, quelli sono tutti per il pubblico, che nel calcio poco televisivo dei primi anni Settanta, uno spettacolo così non l’aveva mai visto. Su un terreno appesantito dalla pioggia, i giocatori dell’Ajax si passano continuamente la palla dentro alle pozzanghere che macchiano il campo.
Ci vuole un po’ prima che spettatori e avversari si accorgano che in realtà lo fanno apposta: sanno esattamente dove il pallone andrà a fermarsi nell’acqua, mentre i difensori greci continuano a correre dove la palla sarebbe finita se il campo fosse stato asciutto. Merito soprattutto di Piet Keizer, uno che toccava il pallone con qualcosa di molto vicino all’amore. Merito naturalmente di Johan Cruijff, che quella sera gioca dappertutto. Letteralmente: lo si vede al centro dell’attacco, a sinistra nei tre di centrocampo, all’ala destra e qualche volta pure libero in difesa. La firma sul 2-0 che incorona l’Ajax campione d’Europa per la prima volta, però, ce la mettono due che non ti aspetti – o forse sì, perché nel calcio totale è lecito aspettarsi tutto da tutti. Dick van Dijk, che dopo appena 5 minuti arriva come un fulmine sul primo palo e segna di testa senza quasi saltare, e poi Arie Haan, l’inconfondibile testone biondo venuto dal Nord, che a 3 minuti dalla fine chiude i conti con un bel destro in scivolata.
Forse è proprio così che doveva andare. Il calcio di Michels aveva bisogno di battere quello di Puskas, la squadra che deve il suo nome ad Aiace Telamonio – nell’Iliade, quando avanzava in battaglia, la terra tremava sotto i suoi passi – aveva bisogno di battere i Greci. Quando il giorno dopo l’Ajax torna a casa con la coppa, per le strade di Amsterdam si vede la più grande festa di popolo dai tempi della Liberazione. «Totally special», è l’espressione che usa Cruijff per parlare di quella sera a Wembley. Sì, totally.
Buio. Sipario. Intervallo. Passano venticinque anni prima che Ajax e Panathinaikos possano giocarsi la rivincita. È l’aprile 1996 e Michels e Puskas sono in pensione, sulla panchina degli olandesi ora siede Louis van Gaal, su quella dei greci l’argentino naturalizzato Juan Ramon Rocha. Stavolta non c’è in palio la coppa, bensì la possibilità di andarsela a giocare nella finale di Roma in un doppio confronto in cui il Pao ancora una volta parte sfavorito. Anche perché l’Ajax è il campione d’Europa in carica e il sistema di Van Gaal sembra pensato apposta per evitare le sorprese: triangolazioni a velocità supersonica in spazi asfissianti, e a chi gli rimprovera di aver strappato l’anima al calcio totale, il generale Louis ribatte «voglio solo che sia perfetto». Solo che allo Stadio Olimpico di Amsterdam – non si gioca ancora all’Arena, che sarà costruita di lì a poco – la perfezione si prende una pausa. Si chiama Krysztof Warzycha, viene dalla Polonia e ha la maglia numero 9 l’eroe che per una sera riavvolge il nastro e riporta il Panathinaikos agli anni di Puskas. Il suo gol lascia il grafomane Van Gaal con la penna a mezz’aria. Non ci crede nessuno che il Pao sia passato 1-0 ad Amsterdam: non lo stadio, che infatti piomba nel silenzio, non i giocatori dell’Ajax, che si guardano e sembrano chiedersi conferma a vicenda di quello che dice il tabellone, tantomeno i greci, al punto che l’allenatore Rocha non ha problemi a confessare che «questa vittoria è una sorpresa per tutti». Ma a Van Gaal le sorprese non piacciono neanche un po’ e allora buio, sipario, ricominciamo.
Due settimane più tardi ad Atene, il terzo atto fa spazio alla perfezione. La stella non può che essere Jari Litmanen, danese con il dono della leggerezza, capace di danzare dentro e fuori dall’area, svanire e riapparire sotto gli occhi dei suoi marcatori, il tutto dando l’impressione di non fare fatica, quasi che nel correre sfiori appena l’erba. Sua la rete che dopo 4 minuti rimette il risultato in parità, sua anche quella che al 77’ completa la rimonta. Il resto lo fa Wooter a ridosso del 90’, anche se gli abbracci sono tutti per Ronald de Boer, per il suo maestoso colpo di testa in tuffo orizzontale che non meriterebbe la ribattuta del portiere.
Sipario. Applausi. Inchini. Stasera ad Atene si ripartirà da qui.