Per un bambino nato il 9 febbraio 1974, solo una cosa poteva essere più pesante del fatto di chiamarsi Cruijff: chiamarsi Jordi Cruijff. Jordi con la J dolce, non aspirata, grazie. Jordi come San Giorgio patrono di Catalogna, la cui croce campeggia in alto a sinistra sullo stemma del Barcellona – e non è mica un caso che il santo del drago e i blaugrana siano quanto di più catalano al mondo. Més que un club, més que un nom.
Jordi Cruijff è la prova di come un nome proprio sia tutt’altro che tale: non l’ha scelto lui, non è soltanto suo, non lo definisce. Anzi, c’è pure chi non lo considera affatto un nome. Quando Johan va all’anagrafe di Barcellona per registrarlo, portando con sé i documenti dell’analogo ufficio di Amsterdam, dove Jordi è nato, si sente rispondere che il bambino non può essere registrato, non con quel nome per lo meno. Il regime franchista, infatti, da anni ha varato una durissima politica linguistica, che ha tolto diritto di cittadinanza al catalano, al galiziano e all’euskara. Il castigliano è l’unica lingua ammessa e insegnata, tutte le altre di fatto vivono in stato di clandestinità. «Se vuole, può cambiarlo in Jorge, è l’unica variante che possiamo accettare». Cruijff, però, non cede: «Questi sono i documenti olandesi, con il nome Jordi, che vi piaccia o no. Fatevi una fotocopia. Se le persone mi dicono che non possono fare qualcosa, voglio almeno che sia giusto». Gli impiegati dell’anagrafe, o più probabilmente i loro superiori, finiscono per fare come dice Cruijff. D’altra parte, Johan in quel momento è la persona più popolare della Catalogna e mettersi in conflitto con lui non sarebbe un’idea felice anche dal punto di vista politico.
Che sia Jordi, dunque. E che prima ancora dell’olandese, impari a parlare il catalano. «Credo che dandomi questo nome, mio padre abbia voluto ringraziare i catalani per l’accoglienza che gli avevano riservato – ha raccontato lui da grande – Che io sia nato in Olanda è dovuto solo al fatto che mia madre voleva partorire nello stesso ospedale in cui sono nate le mie sorelle, ma dopo la nascita mi hanno immediatamente portato a Barcellona e ho sempre la sensazione che quello sia il mio luogo natale. La Catalogna mi ha dato le mie radici e questo è qualcosa che ho sempre sentito».
Jordi Cruijff ha un nome che è una storia d’amore, quello fra Johan e Barcellona, esploso fortissimo nell’autunno 1973 e culminato il 17 febbraio 1974, appena 8 giorni dopo la sua nascita. È il giorno in cui il Barcellona passa 5-0 al Bernabeu nel Clásico, in quella che da molti è vista come la partita con il più alto significato politico del Dopoguerra. C’è chi addirittura sostiene che segni l’inizio della fine del regime franchista e il tabellino più bello lo scrive Manuel Vasquez Montalbán: «1:0 per Barcellona – 2:0 per la Catalogna – 3:0 per San Jordi – 4:0 per la democrazia – 5:0 contro il Madrid». Al centro di tutto questo c’è Cruijff, che trascina i suoi, segna un gol e poi dedica la vittoria a Jordi, il figlio appena nato, non il santo. Anche perché quella sera a Barcellona il santo vero è Johan, che infatti da quel momento diventa “el Salvador”: «Per lo spirito della nazione catalana, ha fatto più lui in quei 90 minuti che tanti politici prima di lui», scrive il New York Times. E benvenuto, piccolo Jordi.
Il catalano ha riavuto il suo diritto all’esistenza, quando per la seconda volta nella sua vita Johan Cruijff arriva a Barcellona proveniente da Amsterdam, stavolta per fare l’allenatore. Con lui naturalmente c’è Jordi, che nel 1988 entra alla Masia per giocare nelle giovanili blaugrana. Un discreto atto di coraggio per un quattordicenne con quel nome lì. Ma Jordi è bravo per davvero. È il 1994 quando si infila per la prima volta la maglia della prima squadra, in una serie di amichevoli che il Barcellona gioca in Olanda, il posto preferito di Johan per la preparazione estiva («perché piove, ci sono meno giornalisti e conosco la lingua»). Pochi mesi dopo esordisce in Liga e anche in Champions, con tanto di assist al Pallone d’Oro Stoichkov nella gara contro il Manchester United. Una prestazione che non sfugge ad Alex Ferguson, che nel 1996 lo porta via dalla Catalogna – dove nel frattempo l’esonerato Cruijff ha è stato sostituito sulla panchina del Barça da Bobby Robson e dal suo interprete José Mourinho – per fare di lui un titolare dello United, almeno fino a quando un brutto infortunio al ginocchio non lo costringe a fermarsi e di fatto compromette il resto della sua carriera. «Tecnicamente è il miglior giocatore che ho visto nel Manchester». Parola di Ryan Giggs.
Eppure non è con i Red Devils che Jordi vive la sua notte più bella e terribile, bensì con l’Alaves, che nel 2001 arriva a contendere la Coppa Uefa al Liverpool di Micheal Owen. In tribuna al Westfalenstadion di Dortmund – dove 27 anni prima l’Olanda di Cruijff aveva schiantato il Brasile – ci sono anche Danny e Johan. Che guardano Jordi segnare all’89’ il gol del 4-4 che porta la partita ai supplementari e sono felici, anche se poi la coppa la vincono i Reds, perché alla fine Cruijff per l’Alaves resterà Jordi.
Ci voleva coraggio per trovare una strada nella strada segnata da quel nome e da quel cognome, e lui l’ha trovata. Dopo l’ennesimo slalom fra i guai al ginocchio, nel 2010 Jordi decide che con il calcio giocato può bastare. Prende la licenza da allenatore, ma gli sembra che la panchina non faccia per lui. Così fa una contro-proposta ai ciprioti dell’AEK Larnaka, barattando il posto da tecnico con quello da direttore sportivo. Dopo due stagioni, arriva una chiamata da Tel Aviv: il Maccabi non vince un campionato da 9 anni e ha bisogno di una ristrutturazione, non è che gli andrebbe di trasferirsi in Terra Santa? Jordi accetta e il Maccabi si trasforma in un interessante laboratorio tecnico, che negli ultimi anni ha formato allenatori saliti alla ribalta in Europa. Su tutti Paulo Sousa, passato di qui prima di diventare l’eroe di Basilea, e Pako Ayestaran, attuale allenatore del Valencia. L’ultimo a spiccare il volo è stato l’olandese Peter Bosz, chiamato a succedere a Frank de Boer sulla panchina dell’Ajax con la benedizione di Johan in persona, che insieme a lui e a Jordi ha intrattenuto lunghe discussioni calcistiche sotto il sole di Tel Aviv.
«Con il nome che ho, non posso permettermi molti errori», ha ammesso Jordi in un’intervista al Guardian. Di sicuro è andato dove quel nome lo portava. Come quando, nel 1995, di fronte all’alternativa fra la nazionale spagnola e quella olandese, rispose senza esitazioni: «Catalogna!»