Valzer viennesi/1. Dal nostro inviato Willy Meisl

Diceva Cruijff che se i giornalisti capissero davvero il calcio, probabilmente non sarebbero giornalisti. Al di là dell’aspetto divertente – perché naturalmente lo diceva in un’intervista, una delle più caustiche chiacchierate con Barend e Van Dorp –, si potrebbe obiettare che esistono delle lodevoli eccezioni. Vittorio Pozzo, innanzitutto, perfettamente a suo agio nel doppio ruolo di ct della Nazionale più vincente della storia e prima firma de La Stampa. Ma prima e più di lui, Willy Meisl, da molti considerato il padre del giornalismo sportivo e il primo teorico del calcio totale, l’uomo capace di andarsene sbattendo la porta dalla Germania nazista e poi di rinfacciare alla Gran Bretagna che l’aveva accolto la sua parte di responsabilità nell’affermazione di quella stessa Germania.

Nato a Vienna da una famiglia ebrea di origine ungherese, Willy aveva presto dovuto confrontarsi con un fratello maggiore di successo, Hugo Meisl, di fatto il fondatore del calcio continentale. Primo allenatore dell’Austria Vienna, subito a ridosso della Grande Guerra aveva avuto fra i suoi giocatori anche il fratellino, portiere di discreto talento, cui in seguito avrebbe consegnato – per una sola e unica partita – la porta della nazionale austriaca che si apprestava a diventare il Wunderteam. Solo che a Willy il calcio piaceva davvero e gli sembrava un peccato guardare le partite da fondo campo: così, dopo essere passato per la boxe, il tennis, il nuoto, la pallanuoto e una breve esperienza come allenatore alla guida degli svedesi dell’Hammerby, aveva deciso di passare in tribuna e di provare a raccontare quello che si vedeva da lì. Una scommessa, più che un lavoro, visto che nell’Europa dei ruggenti anni Venti era difficile trovare qualcuno che non avesse uno scrittore per vicino di casa – possibilmente molto povero e molto felice. A Willy, però, riesce il colpaccio di far entrare il quotidiano BZ am Mittag nei caffè letterari di Berlino. L’occasione gliela danno i Giochi di Parigi 1924 e il finlandese Paavo Nurmi, oro nella prova di corsa campestre nonostante i 45 gradi segnati dal termometro che costringono al ritiro la metà dei partecipanti: per Meisl è “il colpo di sole del Colombes”, per la letteratura sportiva è il biglietto d’ingresso nei salotti buoni.

(GERMANY OUT) *1895-1968+Journalist, Sportjournalist, Dsitzt an der Schreibmaschine und telefoniert- erschienen Sieben Tage 31/1932Foto: Neofot - Arndt (Photo by Neofot/ullstein bild via Getty Images)
(GERMANY OUT) *1895-1968+Journalist, Sportjournalist, Dsitzt an der Schreibmaschine und telefoniert- erschienen Sieben Tage 31/1932Foto: Neofot – Arndt (Photo by Neofot/ullstein bild via Getty Images)

Al giornale, in compenso, confidavano nel successo del reportage, tanto che l’editore Ullstein gli aveva promesso 100 marchi, una cifra principesca per un argomento non ancora preso del tutto sul serio. Quando torna a Berlino, però, Willy trova una bella sorpresa: una lettera in cui la Ullstein si scusa per il basso compenso e gli chiede se è d’accordo al raddoppio della cifra. «E quando mi ricapitava una cosa del genere?», avrebbe commentato anni più tardi Meisl, ripensando al giorno in cui cominciava la sua carriera di giornalista sportivo. Carriera che quattro anni dopo, nel 1928, lo porta alla pubblicazione di “Sport am Scheidewegs” (“Lo sport al bivio”), uno dei primi libri di argomento sportivo apparsi in Europa, che riesce nell’ambizioso compito di offrire al lettore uno sguardo complessivo sullo sviluppo dello sport moderno.

I primi anni Trenta sono quelli della consacrazione. Anche perché il suo lavoro di caporedattore sportivo per il quotidiano berlinese Vossische Zeitung – cui Willy affianca qualche collaborazione con lo storico Kicker, fondato in quegli anni dall’amico Walther Bensemann – lo porta a vivere molto da vicino l’ascesa del Wunderteam, la nazionale austriaca, sulla cui panchina siede il fratello Hugo. Sono gli anni in cui il Donaufußball incanta l’Europa e i club di Austria e Ungheria dominano la Mitropa Cup, il torneo internazionale antesignano della Coppa Campioni. Nausch, Zischek, Vogel e il capitano Sindelar sono fra i protagonisti di una squadra che in poco meno di dieci anni rivoluziona il calcio e arriva a un rigore dal titolo mondiale nel 1934, battuta solo dall’Italia del giornalista Vittorio Pozzo, fra l’altro buon amico di Hugo Meisl. È per loro che Willy inventa il termine “the whirl”, il vortice, per descrivere il movimento avvolgente e continuo di una manovra in cui se un giocatore si muove, tutti gli altri si muovono a loro volta per sostenerlo.

Nell’estate del Mondiale italiano, però, Willy aveva già lasciato Berlino: dopo la salita al potere di Hitler, la Ullstein aveva prima allontanato dalla redazione della Vossische Zeitung i giornalisti indesiderati, quindi chiuso completamente la testata. L’ultimo pezzo firmato da Meisl e pubblicato la domenica di Pasqua si intitola “Da Danny Mendoza a Carr” e rinfresca la memoria dei lettori sui successi ottenuti dagli sportivi ebrei. Il giornale di quel giorno fa registrare vendite da record, tanto che non se trova una copia nemmeno negli archivi della Ullstein, che nonostante i duri attacchi da parte del partito nazista, non dice una parola per prendere le distanze dal suo ormai ex caporedattore. Dopodiché Willy chiude le valigie e si trasferisce a Londra, da dove continua a seguire la nazionale del fratello – cui un infarto nel 1937 eviterà di vedere la sua squadra soppressa dall’annessione – e soprattutto il calcio inglese, che da sempre guardava dall’alto in basso tutto quello che succedeva fuori dall’Isola. Nel 1936 collabora con il comitato olimpico britannico costituendo di fatto l’ufficio stampa della squadra ai Giochi di Berlino, poi arriva la guerra e Willy la affronta da ufficiale dell’esercito inglese, quello stesso che nel ’18 aveva combattuto dall’altra parte del fronte, tenente delle forze austro-ungariche.

A Vienna non torna nemmeno quando l’Austria recupera l’indipendenza. Preferisce fare il corrispondente dall’estero, fonda la rivista di calcio internazionale “World Sports” e soprattutto continua a osservare con grande attenzione quello che succede sui campi d’Inghilterra. Si accorge così di quello che già aveva notato l’eretico Jimmy Hogan: «L’Inghilterra ha dimenticato molto e non ha imparato niente». Secondo Meisl il calcio inglese, con la sua filosofia basata su safety first e speed at all costs, era stato ormai sorpassato da quello continentale, capace di sviluppare un gioco tecnicamente più raffinato e tatticamente meglio organizzato. Le sue riflessioni confluiscono in “Soccer revolution”, il libro che nel 1955 di fatto pone le basi teoriche di quello che quindici anni più tardi sarà il calcio totale. Lo spunto viene dalla doppia, traumatica sconfitta incassata dalla nazionale inglese per mano dell’Ungheria di Puskas nel giro di sei mesi: prima il 3-6 di Wembley – tuttora la peggior disfatta interna dell’Inghilterra, che aveva avuto un fortissimo impatto sull’opinione pubblica – e poi l’1-7 di Budapest. Disfatte che, prima ancora che all’Ungheria, erano da attribuire all’atteggiamento degli inglesi stessi, ben riassunto dal sottotitolo del libro: “La Gran Bretagna ha insegnato al mondo a giocare e ad amare il calcio, per poi ricevere una dura lezione dai suoi vecchi allievi”. Meisl individua la causa della decadenza nella mancanza di immaginazione, caratteristica connaturata all’Inghilterra: «Willy, per l’amor del cielo, non essere mai brillante!», si era raccomandato in tono grave il cognato, al momento della sua partenza per Londra.

Le squadre inglesi avevano continuato a privilegiare l’aspetto fisico su quello tecnico-tattico, finché il disastro di Wembley non aveva mostrato che «il cervello vince sui muscoli». Anche il Mondiale del 1954 era la prova di come il successo passasse, oltre che per i dribbling, anche attraverso la capacità di passarsi la palla con un solo tocco: appena un giocatore completa un passaggio, subito scatta in una nuova posizione, in attesa di un’ulteriore giocata. È proprio questa attenzione alla giocata ulteriore – il “terzo uomo” per dirla con Cruijff – che fa la differenza rispetto al kick and rush degli integralisti inglesi. «Dobbiamo liberare la nostra gioventù calcistica dall’obbligo di giocare su ordinazione – scrive Meisl – lungo binari prestabiliti. Dobbiamo dare loro idee e incoraggiarli a sviluppare le proprie». Sembra “L’attimo fuggente”, invece è “Soccer revolution”, che poi elenca chiaramente i fondamenti del calcio brilliant che in quegli anni nessuno esprimeva meglio dell’Ungheria: eccellente controllo di palla individuale, gioco posizionale intelligente in fase di non possesso, passaggi precisi grazie a un perfetto dominio del pallone, coesione e comprensione reciproca, potenza nel tiro e rapidità – concetto ben diverso, questo, dalla velocità a tutti i costi degli inglesi.

Era il 1955. Ci sarebbero voluti quindici anni e diversi passaggi intermedi, di cui molti in lingua inglese, affinché tutto questo diventasse il manifesto programmatico di una squadra e forse di un’intera generazione. Ma è stato un giornalista a dirlo prima di tutti gli altri – con buona pace di Cruijff.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *