Adesso che sono passati 38 anni, è fin troppo facile dirlo: il 7 novembre 1978 ad Amsterdam non si è giocata la partita dell’addio al calcio di Johan Cruijff. La questione non è linguistica e nemmeno storica, bensì smaccatamente ontologica, perché se partita c’è stata – e la storia lo conferma – non si trattava del passo d’addio del giocatore che nei 18 anni precedenti a quella sera aveva cambiato per sempre il calcio. Ajax-Bayern Monaco 0-8 potrebbe sembrare uno scherzo, un errore di battitura o un messaggio in codice, in ogni caso mai la partita organizzata per rendere omaggio a Cruijff, dalla squadra e nello stadio in cui è cresciuto. Mai. In qualche modo deve averlo percepito anche lo stesso Johan, che nel brevissimo passaggio della sua autobiografia dedicato all’episodio, ammette che forse avrebbe dovuto interpretare gli avvenimenti di quella notte come un segno che fra lui e la maglia numero 14 non era davvero finita. Ajax-Bayern Monaco 0-8. Troppo esagerato anche per un film, figuriamoci per una festa in cui tutti sono venuti allo stadio portandosi i fazzoletti, ché non si sa mai. Perciò, Johan, perdonali.
Perdona i giocatori dell’Ajax che scendono in campo con te. Perdonali perché non sono quelli che avevi lasciato nello spogliatoio del De Meer cinque anni prima, sbattendo la porta dopo quello che consideravi un tradimento. Perfino Ruud Krol e Piet Schrijvers stasera sembrano la controfigura di se stessi in mezzo a tutti questi altri ragazzi che sono cresciuti sognando di essere Johan e si sentono come al luna park ora che possono giocargli accanto. Dovrebbe essere la tua festa, ma forse i più emozionati e felici sono loro. Quindi perdonali se pensano che basti averti in squadra perché vada tutto bene – la verità è che per tanto tempo all’Ajax è stato esattamente così. Perdonali se sono convinti che una partita d’addio sia una di quelle scene in cui l’eroe dà spettacolo per novanta minuti, segna almeno un paio di gol e la partita finisce con un pareggio che va dal 3-3 in su. Ammetterai che era un copione piuttosto diffuso già negli anni Settanta e che in fondo non è un brutto modo per congedarsi.
Perdona anche Rinus Michels, che stasera non è qui perché si è appena trasferito a Los Angeles e sulla sua panchina siede Cor Brom – perdona anche lui, è arrivato da poco e se ne andrà a fine stagione dopo aver conquistato il double campionato-coppa che mancava dagli anni d’oro. Anche il nuovo allenatore doveva essersi preparato per ben altro spettacolo e infatti assolve il suo compito sostituendoti a cinque minuti dalla fine, così che tu possa prenderti l’applauso di Amsterdam. Peccato solo che abbandonare il campo con la squadra sotto 8-0 non sia il massimo, tanto più se questa partita si giocava espressamente per te. Forse anche Brom era convinto che bastasse averti per vincere o forse gli sembra fuori luogo mettersi a dare indicazioni in una partita d’addio, anche quando diventa chiaro che il Bayern fa sul serio.
Sì, perché in questa notte impossibile il ruolo dei guastafeste tocca alla squadra di Gyula Lorant, peraltro orfana del suo capitano Franz Beckenbauer, volato a New York per giocare con i Cosmos e che di lì a qualche anno avrebbe anche lui perso la sua partita d’addio, ma almeno giocando con l’Amburgo contro la nazionale tedesca. Per sostituirlo – ammesso che uno come il Kaiser si potesse davvero sostituire – il Bayern ha pescato nel Karlsruhe il ventenne Kurt Niedermeyer, giovane abbastanza da aver ammirato Cruijff in tv, quindi onorato di essere nella distinta con le formazioni della sua ultima partita. Perdonalo, Johan, se è fra i primi ad accorgersi che c’è qualcosa che non va e anche se una trentina d’anni più tardi ha la lucidità di raccontarlo senza frasi di circostanza. «La verità è che noi del Bayern quel giorno ad Amsterdam ci sentivamo la ruota di scorta – ha detto nel 2007 in un’intervista a 11Freunde – Avevamo l’impressione che ci avessero invitato solo perché si potesse giocare in 11 contro 11. Quando siamo arrivati all’aeroporto di Schipol, nessuno è venuto a prenderci e anche l’albergo dove eravamo alloggiati era di seconda categoria. Sembrava che se non fossimo andati, la cosa non avrebbe disturbato nessuno». Molto disturbato è invece Paul Breitner, eroe maoista di un Mondiale e un Europeo, che già durante il riscaldamento ha modo di sperimentare come i ri-sentimenti olandesi nei confronti dei tedeschi siano tutt’altro che attenuati: «Paul ci raccontò che il pubblico ci aveva urlato contro dandoci dei “maiali nazisti” e che mentre rientrava negli spogliatoi gli spettatori gli avevano perfino sputato addosso. A quel punto la misura era colma». E infatti la prima cosa che fa Breitner appena guadagna lo spogliatoio è prendere da parte Sepp Maier, Branko Oblak e Gerd Müller. Poi tutti e quattro tornano dal resto della squadra e avvisano gli altri, a cominciare dai più giovani (fra i quali figura anche l’olandese Martin Jol, futuro allenatore dell’Ajax), che stasera si fa sul serio. «Forse loro avevano ancora in mente lo 0-4 rimediato proprio ad Amsterdam nel 1973 in Coppa – ipotizza Niedermeyer – All’intervallo eravamo avanti 3-0, alla fine abbiamo vinto 8-0».
A far capire l’aria che tira è il solito Gerd Müller, che ci mette meno di due minuti a portare in vantaggio il Bayern e, non contento, chiuderà la serata con una tripletta, in campo fino alla fine nonostante i suoi 33 anni. Lui devi perdonarlo due volte, Johan, per questi tre gol e per averti fatto fare, una volta nella vita, la figura del ripiego: Rinus Michels voleva lui al Barcellona nell’estate del 1974, solo che a Monaco dissero di no. Tre gol li segna anche il ventitreenne Karl-Heinz Rummenigge, il migliore in campo, mentre al resto pensa Breitner, tanto per restituire le cattiverie al pubblico olandese, facendo scrivere sul tabellone gli stessi nomi della finale mondiale di quattro anni prima – e questa è una crudeltà difficile da perdonare.
Al fischio finale Cruijff riesce a malapena a sorridere. «Abbiamo bevuto una birra tutti insieme, ma non c’è stata una vera e propria festa», ha ricordato Simon Tahamata, compagno di squadra per una sera. Appena il Bayern rientra nel proprio spogliatoio, questo viene preso d’assalto dalle proteste olandesi: prima l’allenatore dell’Ajax Brom («volevamo festeggiare Cruijff, non ce l’avete permesso»), poi il presidente Harmsen, arrabbiatissimo, che tuona «È una vergogna!» in faccia alla squadra che lui stesso aveva invitato, infine come una furia il ct dell’Olanda Fardhonc, che si lancia in una lavata di capo che dura diversi minuti. Di certo andrebbero perdonati anche tutti loro, perché Cruijff non ha mai avuto bisogno di avvocati difensori. «Non esattamente l’addio che uno sognerebbe», è l’unico commento che si concede quando ripensa a quella notte sbagliata e la accosta all’altra partita d’addio che aveva perso 3-1 solo pochi mesi prima giocando con il Barcellona proprio contro l’Ajax. Non poteva finire così, e infatti così non è finita.
In tutto questo, gli unici ad aver chiesto davvero di essere perdonati sono i tedeschi. Lo hanno fatto nel 2006, a 28 anni dal delitto, per bocca di colui che forse più di tutti ha rubato quella notte a Cruijff, Karl-Heinz Rummenigge: «Quella vittoria così larga fu un’offesa», dice alla tv olandese. «Non sono orgoglioso di quella partita», gli fa eco Gerd Müller. E Sepp Maier, cui secondo Rummenigge Cruijff quella sera avrebbe chiesto di fare sul serio, addirittura chiede scusa in olandese: «Sorry, Johan». Cruijff non ha mai detto se li ha perdonati. Quello che è certo è che tutti in Olanda si sono fatti la stessa domanda: ma come si fa a invitare proprio i tedeschi alla festa di Cruijff?