Dicevano fosse un ragazzo difficile, Piet Keizer, ma forse l’unica cosa difficile era rendersi conto di che giocatore sarebbe diventato quel ragazzo. Grande e grosso, i lineamenti squadrati così in contrasto con quella massa di ricci biondi, sembrava uscito da un tempo indefinibile e non sentirsi nemmeno in dovere di chiedere scusa per questo. Dicevano anche che fosse più forte di Cruijff e che, a differenza di Johan, non ci prendesse gusto a stare sempre al centro dell’attenzione. Che i compagni l’avevano capito e che per questo lo elessero capitano nel 1973, uno sgarbo che l’Ajax tutto pagò con l’addio di Cruijff e la fine della sua era più gloriosa, ma quasi nessuno ricorda che, per ammissione degli stessi giocatori, già al momento di quella disgraziata elezione era chiara la sensazione che l’epoca d’oro fosse finita. Dicevano anche che dell’Ajax che aveva fatto innamorare il mondo fra il 1970 e il ’73, alla fine tutto quello che restava era Piet Keizer – Cruijff e Neeskens a Barcellona, Haan a Bruxelles, Swart nel suo negozio di sigari. Diceva lo scrittore Nico Scheepmaker che “Cruijff is the best, but Keizer is the better one”, ed è un paradosso che ha fatto scuola.
Il fatto è che Piet Keizer e Johan Cruijff si somigliavano molto più di quanto dessero a vedere, e forse per questo si sono capiti al volo e sono rimasti legati per tutta la vita: tutti e due erano convinti di avere ragione, ma mentre Johan aveva un modo molto teatrale per dimostrarlo, Piet più semplicemente non cedeva di un millimetro. D’altra parte, proprio questo ostinato andare per la sua strada senza ascoltare nessuno gli era valso la reputazione di ragazzo difficile all’inizio della sua carriera. Quando arriva diciassettenne in prima squadra – una specie di doppio salto mortale, visto che con l’A1 aveva giocato solo una manciata di partite – quelli che andavano a vederlo già ai tempi delle giovanili, avvisano i nuovi tifosi: Con quello lì non esistono mezze misure, o si odia o si ama. Lo ama – e tanto – Jany van der Veen, maestro di generazioni di ajacidi, che lo aveva scovato dodicenne quando giocava nell’Amstel nel 1955 e immediatamente aveva organizzato il suo trasferimento al De Meer. Nato nell’estate del ’43 in piena occupazione nazista, sopravvissuto all’hongerwinter, l’inverno della fame del ’45, Keizer è il primo wonder boy del dopoguerra olandese: a 15 anni gioca i tornei internazionali con l’Ajax-1, a 17 esordisce in prima squadra grazie a Vic Buckingham, che il 26 febbraio 1961 lo butta dentro dal primo minuto a Eindhoven contro il PSV. Un debutto niente male, visto che la partita è cominciata da meno di un minuto, che i ragazzo difficile porta in vantaggio l’Ajax segnando il suo primo gol in Eredivisie. Che non è anche il primo da professionista, perché al riguardo il calcio olandese è ancora anni luce indietro rispetto al resto del mondo: il professionismo è ammesso dalla Federazione dal 1954, ma ancora sette anni dopo non c’è un solo calciatore professionista. Il primo sarà proprio Keizer, che firma il primo contratto della nuova era giusto al termine della sua prima stagione con gli adulti, chiusa con la bellezza di 20 presenze e 4 gol in poco più di tre mesi. Insieme ai primi soldi, arriva la prima auto, la fidanzata Jenny che poi diventerà sua moglie e l’attenzione della stampa, che senza successo cerca di avvicinarsi a questo giovanissimo fenomeno. Solo che Piet proprio non capisce cosa ci sia di tanto interessante in lui, così rifiuta qualsiasi intervista. Non solo, ma dei giornali se ne infischia proprio: scrivessero quello che vogliono, tanto lui non li legge. Quando si accorgono che è davvero così e che veramente Keizer non legge una parola di quello che esce, ovviamente i giornalisti se la prendono a morte e non perdono occasione per mettere in evidenza certi comportamenti sopra le righe che l’Olanda – in questo molto simile all’Inghilterra – non perdona. Come quando, nella cronaca di un incontro fra le giovanili di Svizzera e Olanda, Jan Blankers del Telegraaf gli attribuisce un brutto fallo non visto dall’arbitro. «Non capisco che motivo avessero di dire certe cose – commenta Piet anni più tardi – Ero solo un giovane giocatore e per me i giornali sportivi non erano un’opportunità per comunicare. Pensavo: se le persone mi vogliono vedere giocare, che vengano allo stadio».
Anche perché lì di cose da vedere ce ne sono tante. Quella che incanta di più è il modo in cui Keizer sembra ridisegnare lo spazio del campo, con o senza la palla: la sua corsa apre squarci nelle difese che nemmeno i più veloci riescono a ricucire, poi si ferma all’improvviso e calcia con insospettata innocenza, e il pallone prende una curva per cui servirebbero chissà quali equazioni. «Una volta contro il Feyenoord ha bloccato la gamba proprio di fronte alla porta e molto lentamente la palla è andata dentro», racconta Jan Mulder. «Da fermo ti poteva dare un passaggio che tagliava fuori tre uomini e ti lasciava libero di segnare», aggiunge Sjaak Swart. “Charlie Chaplin-style football”, è l’espressione coniata da David Winner per descrivere il suo modo di giocare: non un prestigiatore, piuttosto un ironico poeta.
E dire che la sua fulminante carriera potrebbe chiudersi già dopo due anni. Il 25 marzo 1964 l’Ajax gioca all’Olimpico il derby contro il DWS Amsterdam. Keizer ha già segnato un gol, ma la partita è in bilico. Lui e Pijlman vanno a contendersi un pallone di testa, scattano nello stesso momento, staccano all’unisono e insieme vanno a colpire. Solo che Pijlman prende la testa di Keizer, che però quando torna a terra continua a giocare come se niente fosse. Solo dopo qualche minuto, comincia a non sentirsi bene. Finisce comunque la partita, ma quando torna a casa e si accorge che le vertigini non passano, decide di dare retta ai medici dell’Ajax e di presentarsi all’ospedale militare di Utrecht, dove di lì a una settimana avrebbe dovuto completare gli obblighi di leva. Lì gli comunicano che il colpo che ha preso gli ha provocato un coagulo di sangue che è necessario rimuovere chirurgicamente. Ma siamo nel 1964 e in questi casi la tecnica che si usava era ancora la lobotomia. Ci vuole un po’ per convincere Keizer – che inizialmente si oppone all’intervento per non dare una preoccupazione ai genitori, visto che, non avendo ancora 21 anni, per operarlo serve il loro consenso -, ma alla fine il parlare franco del dottor Posthuma («Lasciaci intervenire, altrimenti muori») fa effetto.
Cinque settimane di riabilitazione in ospedale, poi a casa, dove – strano a dirsi – a Piet non è permesso giocare a calcio, nonostante affermi di sentirsi benissimo. L’umore ne risente al punto che Keizer comincia a pensare di mollare tutto. È allora che interviene Jany van der Veen: «Ogni mattina veniva da me per farmi allenare. Se non l’avesse fatto, io sarei rimasto a letto fino a mezzogiorno». Visite importanti sono anche quelle di Vic Buckingham, che dopo l’estate torna alla guida dell’Ajax e per prima cosa ha bisogno di sapere se potrà contare sul suo giocatore migliore: «Riuscì a farmi passare la paura dicendomi che in Inghilterra infortuni come il mio erano all’ordine del giorno».
Il Keizer che esce dai nove mesi di convalescenza seguiti all’intervento al cervello ha imparato che nella vita le cose sono relative ed è meglio non prenderle troppo sul serio. L’Ajax che ritrova a dicembre ’64, per esempio, naviga in pessime acque in campionato, però da qualche giorno ha portato in prima squadra un altro diciassettenne cresciuto da Jany van der Veen. In Johan Cruijff, Keizer vede molto del se stesso di qualche anno prima e decide di dargli una mano. «Gli devo tantissimo – scrive Cruijff nella sua autobiografia – Quando ho cominciato ad allenarmi con la prima squadra, mi ha preso sotto la sua ala. Era l’unico professionista dell’Ajax ed era sempre gentile con me. Per esempio, si assicurava che la sera fossi a casa entro le nove e mezza per evitare le punizioni di Michels». Sì, perché all’inizio del ’65 l’Ajax cambia allenatore e affida la panchina al suo ex centravanti, che nel giro di qualche anno porterà la squadra direttamente nella storia del calcio. Solo che allo spettacolo del campo corrispondono allenamenti massacranti e un piglio autoritario che non a tutti piace. A Keizer, per esempio, certe pretese del nuovo allenatore non vanno proprio giù: «Michels ha questa idea per cui io nel calcio dovrei essere una roccia e spegnere tutte le sensazioni umane». A lui, però, piace restare umano. Anche a costo di litigare apertamente con il tecnico, come succede nel 1970, quando una trasferta in Spagna si trasforma nel casus belli per un conflitto che andava avanti da tempo: da lì in poi i due praticamente non si parlano e all’Ajax lo sanno tutti, dai magazzinieri al presidente. La cosa non impedisce a Keizer di formare con Cruijff una coppia affiatata (in totale Johan realizzerà 30 assist sui 239 gol di Piet) e alla squadra di conquistare la sua prima Coppa dei Campioni contro il Panathinaikos. Quando a fine stagione Michels lascia per andare al Barcellona, Keizer festeggia ballando sui tavoli, ma deve avere ancora a che fare con lui nel 1974, quando il suo ex allenatore diventa commissario tecnico della nazionale. I vecchi dissapori non bloccano la convocazione, ma l’impiego sì: Keizer arriva in Germania in condizioni fisiche non perfette, Michels non fa sconti e dopo una brutta prestazione nello 0-0 con la Svezia promuove al suo posto Rensenbrink. Quando, però, è costretto a sostituirlo per infortunio nell’intervallo della finale, Michels preferisce Rene van de Kerkhof a Keizer. E questo Piet non glielo perdonerà mai.
Cruijff, invece, perdonerà lui per non aver rifiutato la fascia di capitano nel 1973. Non che Keizer gli abbia mai chiesto scusa. Ma erano stati troppo vicini in un momento troppo importante delle vite di entrambi per non chiarirsi. Per anni Johan ha cercato di coinvolgerlo nella sua crociata per tenere il calcio olandese sui binari che erano stati loro stessi a disegnare. Piet non ha mai accettato. Dopo aver detto basta con il calcio a 31 anni – pretesto, un litigio con l’allenatore Hans Kraay – non ha più toccato un pallone per trent’anni. Neanche di sfuggita, neanche per facilitare una rimessa laterale al figlio durante una partita fra ragazzi. Si è scansato come se la palla fosse avvelenata. Ci è voluto Cruijff per fargli rimettere la maglia dell’Ajax in un’occasione benefica nel 2013. Solo chi non li conosceva poteva sorprendersi leggendo il nome di Keizer nell’undici ideale di Johan. Sarà che hanno sempre condiviso l’idea per cui le cose semplici sono le più difficili. Anche i ragazzi, forse.