Fra i campioni del mondo senza coppa che l’8 luglio 1974 vanno a bagnarsi nella folla che li aspetta ad Amsterdam, ce n’è uno che dietro gli occhiali da sole non nasconde le ore piccole della sera prima. Jan Jongbloed non ci prova nemmeno, a fare finta che vada bene così: «Meno male che è finita», sono le prime parole che annota sul suo diario dopo la finale di Monaco, e non si riferisce solo alla partita. Le sette settimane del Mondiale gli hanno tolto quattro chili dal corpo – all’inizio del ritiro ne pesava 73, adesso arriva a stento a 69 – e dal cuore un bel po’ del piacere che gli dava andare in porta e giocare. Senza guanti, senza contratti da professionista, senza tutte quelle super star intorno – Cruijff che non la smette mai di parlare, Neeskens con quel suo sorriso da attore.
Voleva solo giocare, Jan Jongbloed, e non nel senso che voleva fare soltanto quello. Anzi. Sesto di dieci fratelli, nato nel primo autunno di Amsterdam occupata, insieme alle idee comuniste ha ereditato dal padre sarto una certa sensibilità per i tessuti: quello con cui sono fatti i guanti da portiere, per esempio, proprio non riesce a sopportarlo e così in porta ci va a mani nude, «altrimenti non riesco a sentire il pallone». Al DWS Amsterdam va bene anche così. Nel 1959 lo hanno voluto lo stesso, benché avesse già 19 anni e fin lì si fosse limitato a giocare con gli amici. Lo hanno fatto esordire in Eredivisie e tre anni più tardi Jongbloed riceve la sua prima convocazione in nazionale. Niente male per uno che para senza guanti e si allena solo di sera, perché di giorno manda avanti una tabaccheria. L’esperienza in sé lascia più rimpianti che altro: buttato dentro a 4 minuti dalla fine di un’amichevole contro la Danimarca che l’Olanda sta perdendo 3-0, Jan fa in tempo a incassare il quarto gol e da quel momento – siamo nel 1962 – si dimentica la nazionale. Letteralmente, tanto più che quando l’Olanda comincia a raccogliere i frutti del suo brillante apprendistato calcistico degli anni Sessanta, il talento fra i pali è il giovane Jan van Beveren, che a 22 anni è già un idolo per il PSV Eindhoven e sembra destinato a difendere la porta della nazionale per almeno un decennio.
A togliergli la gloria e l’onore del primo Mondiale che l’Olanda gioca dal 1938 sono un brutto infortunio e Johan Cruijff. Qualche mese prima dell’inizio del ritiro, Van Beveren si fa male nella partita di qualificazione contro il Belgio e quando mancano ormai poche settimane alle convocazioni non è ancora tornato pienamente disponibile. La versione ufficiale parla di un ultimatum del ct Rinus Michels: o Van Beveren dimostra di essere a posto giocando per intero un’amichevole prima di partire per il ritiro, o il suo nome non sarà fra quelli dei convocati. Sempre secondo la stessa versione, il portiere rifiuta, offeso da una simile mancanza di fiducia, e guarda i Mondiali in televisione (a proposito, è la prima volta che li trasmettono a colori e l’arancione dell’Olanda arriva in tutta la sua forza). L’altra versione, quella che nel ’74 era una voce di corridoio ma nel 2011 è risultata verità per ammissione dello stesso Cruijff, dice che Van Beveren non sarebbe stato il portiere dell’Olanda in Germania neanche se non si fosse fatto male: prima della partenza, i giocatori ingaggiano un braccio di ferro con la Federazione per ottenere premi più alti e copertura assicurativa in caso di infortunio e a Jan non sta bene che a rappresentare gli interessi di tutti sia Cor Coster, manager e suocero di Johan. Ma si sa che alla fine ha sempre ragione Cruijff. Il quale, dopo aver ottenuto da Michels l’esclusione di Van Beveren, gli suggerisce pure il sostituto scegliendo il nome più improbabile di tutti.
Jan Jongbloed nel 1974 ha quasi 34 anni, gioca nell’FC Amsterdam (nuovo nome del DWS dopo la fusione con altri due club cittadini) con il quale ha un contratto da semiprofessionista e la sua prima e ultima presenza in nazionale risale a 12 anni prima. I malpensanti dicono che Cruijff interceda per lui perché è quello con il carattere più accomodante, ma chi l’ha visto giocare ammette che per quello che fa l’Olanda, è il portiere giusto. Jongbloed è il perfetto non-numero uno. Le mani non se le protegge, ma le ginocchia sì e in campo va con un paio di ginocchiere da pallavolo. Non è alto – non arriva al metro e ottanta – e nemmeno particolarmente esplosivo. Si tuffa raramente, neanche avesse paura di sporcarsi. I riflessi fra i pali non sono male, ma la sua forza, la cosa che in quel momento storico lui ha e gli altri no, almeno al di qua della Cortina di Ferro, è la capacità di giocare con la squadra in fase di possesso – quindi molto spesso, considerando il gioco dell’Olanda – agendo quasi da libero aggiunto alle spalle della difesa. Difendere la porta giocandoci davanti, invece che facendo la guardia sulla linea. Idea audace, che sarà sviluppata da Cruijff quando diventerà allenatore dell’Ajax e poi portata in giro per il mondo dal suo preparatore dei portieri, Frans Hoek. Portiere offensivo quarant’anni prima di Manuel Neuer (ma con un fisico neanche lontanamente paragonabile), Jongbloed non è un numero uno perché non gioca con il numero uno: con la sola deroga del 14 di Cruijff, la numerazione olandese segue un rigoroso ordine alfabetico, che alla sua maglia gialla assegna il numero 8. Per la cronaca, l’1 è Ruud Geels, un attaccante che per tutto il Mondiale non andrà mai oltre la panchina.
Non richiesta e ancora meno attesa, l’intercessione di Cruijff proietta Jongbloed in una dimensione che fa apparire la sua tabaccheria un puntino lontano. Quando parte per la Germania, si porta gli asciugamani da casa: d’altra parte, così gli era stato detto di fare l’ultima volta che era stato in nazionale. La stampa si aspetta in campo la stellina del Twente Piet Schrijvers, che invece dovrà limitarsi a fare la riserva. Jongbloed le gioca tutte e tutte bene, tanto che l’Olanda approda alla finale di Monaco con appena un gol subito, che potrebbe andare nel conto di quelli segnati perché è un autogol di Krol. Anche questo è calcio totale, a quanto pare. Difficile dire che il merito sia di Jongbloed, piuttosto dell’organizzazione offensivo-difensiva di cui fa parte anche Jongbloed, talmente perfetta che ci si accorge di quanto bene funzioni nel momento in cui si inceppa: non tanto il rigore di Breitner – Jan non accenna nemmeno a buttarsi – quanto il gol del definitivo 2-1 di Gerd Müller, quel fermo immagine impietoso di lui con intorno tre giocatori olandesi che si vanno addosso l’un l’altro e Jongbloed fermo a metà strada fra la linea di porta e il limite dell’area piccola, che segue con gli occhi il pallone in fondo alle rete. Quando l’arbitro Taylor fischia la fine all’Olympiastadion, Jan non è deluso né arrabbiato. È solo sollevato.
Il ritorno ad Amsterdam gli porta due offerte: quella dell’Ajax, che gli propone il posto lasciato libero da Stuy, e quella del suo club, che mette sul piatto un contratto da professionista. Jan le rifiuta entrambe. Vuole giocare e vuole la sua tabaccheria, che però è già diventata meta di pellegrinaggio per i tifosi, perché lui è campione del mondo, anche se la coppa è rimasta in Germania e la medaglia è chiusa in un cassetto in cucina. Dopo tutto quello che gli ha tolto quella quaresima tedesca, non ne vuole più sapere della nazionale. Che d’altra parte, non ne vuole sapere di lui almeno fino al 1977, quando il Mondiale in Argentina si avvicina e Cruijff ci mette nuovamente una buona parola, stavolta con Ernst Happel. Jongbloed nel frattempo ha chiuso a malincuore la tabaccheria e si è sottoposto a un anno di doppie sedute di allenamento pur di arrivare alla condizione fisica necessaria a sostenere un livello professionistico molto più impegnativo rispetto a dieci anni prima. Stavolta lascia a casa gli asciugamani, ma in porta vanno ancora lui e il suo numero 8. La sconfitta con la Scozia sembra costargli il posto in favore di Schrijvers, non fosse che nella partita contro l’Italia lo sfortunatissimo portiere dell’Ajax riesce a rimediare da Ernie Brandts in un colpo autogol e frattura dello zigomo e deve lasciare la porta a Jongbloed. Finisce come quattro anni prima – qualcuno dice anche peggio – ma quando torna in Olanda, Jan non vuole ancora smettere, anche se ormai da un anno ha detto addio all’FC Amsterdam per il Roda, lasciando la squadra della sua vita nelle uniche mani di cui si fida completamente, visto che le ha fatte lui: quelle del figlio Erik.
Jan gioca ancora il 23 settembre 1984, ed è per questo che non è allo stadio a vedere Fortuna Sittard-FC Amsterdam. Per questo non sente il boato e non vede la palla di fuoco che a un certo punto fa volare di qualche metro diversi giocatori del Fortuna e lascia un filo di fumo nel posto dove un attimo prima c’era Erik. Un fulmine a ciel sereno, e non per modo di dire. Jongbloed gioca ancora un anno, fino a che, durante una partita contro l’Haarlem, il suo cuore smette di battere per un lungo, doloroso momento. Poi riparte. Due giorni dopo, Jan scopre che a provocare quella fitta è stato un infarto, dovuto a un’alterazione congenita delle coronarie. Deve ancora compiere 45 anni. Smette di giocare, non di stare in campo: prima è nello staff tecnico dell’Haarlem, poi in quello del Vitesse, dove lascia la panchina all’emergente Ronald Koeman. Solo a 70 anni deciderà di andare in pensione e dedicarsi alla pesca, lui che nel ’74 era partito per il ritiro portandosi dietro canna e lenze, casomai avesse dovuto annoiarsi, altro che giocare e stupire il mondo.
JongbloedSuurbierHaanRijsbergenKrolJansenVanHanegemNeeskensRepCruijffRensenbrink. Lo scioglilingua che alcuni usano come professione di fede nel calcio totale comincerà sempre per Jongbloed.