Schierarlo fra i titolari nell’ultima partitella sapendo che non avrebbe avuto alcuna speranza di giocare davvero poteva sembrare crudele, ma la verità è che Günter Netzer era troppo forte per questo. Il più talentuoso dei giocatori della Germania ai Mondiali casalinghi del 1974 arriva alla vigilia della finale con appena 20 minuti di campo, quelli della sciagurata partita contro i fratelli separati della DDR. Un paradosso che il commissario tecnico Helmut Schön per settimane ha spiegato con un campionario di ragionevolezza: Netzer è arrivato in ritiro in condizioni fisiche non perfette, nel corso della stagione è stato a lungo infortunato e non ha mai potuto prendere confidenza con gli schemi del Bundestrainer perché il Real Madrid, la sua squadra di club, non concede i propri giocatori alle rispettive nazionali per le amichevoli. Ma Netzer è il più forte di tutti, obiettano i giornalisti. Come fa Schön a non accorgersene e a preferirgli il ben più prevedibile Overath? In realtà il ct se ne rende conto perfettamente. Al punto che alla vigilia della finale di Monaco, che vedrà la Germania Ovest opposta alla scintillante Olanda, al termine della rifinitura chiama a sé Netzer e lo guarda bene negli occhi. «Adesso tu sei Cruijff», gli dice. Poi chiama Berti Vogts: «Lui è Cruijff, voglio che lo marchi a uomo. Fammi vedere come fai».
Vogts e Netzer, per anni compagni di squadra nel Borussia Mönchengladbach, si scambiano un’occhiata perplessa, ma non certo per il singolare gioco delle parti, perché se c’è qualcuno che nella Germania possa interpretare la parte di Johan, quello è sicuramente Netzer. Piuttosto, siamo sicuri che sia una buona idea la marcatura a uomo? I due, comunque, si tengono i dubbi e si mettono subito al lavoro: come Schön sa benissimo, Günter è in forma smagliante, tanto che deve trattenersi per non rischiare che Vogts si faccia male correndogli dietro: «Ero in una condizione strepitosa in quella partitella – ricorda Netzer, citato da Dietrich Schulze-Marmeling in “Der König und sein Spiel” – ma mi sono un po’ tirato indietro, perché pensavo che non potevo fare danni a Berti. Tutto sommato lui contro di me non è dovuto impazzire». La prestazione convincente di Vogts conferma a Schön che è lui l’uomo giusto per limitare Cruijff, tanto più che ha già giocato contro di lui in tre occasioni, due volte con il Gladbach e una volta con la nazionale. Sono i giocatori a essere scettici, con Hans Schwarzenbeck che avvisa il compagno di reparto: «Parla con te per tutta la partita come se niente fosse, oppure guarda la bandierina del calcio d’angolo senza fare niente. Ma tutto quello che fa, è pura classe». Il meno convito di tutti è proprio Berti Vogts: «Herr Schön, guardi che Cruijff è troppo veloce per seguirlo fino a centrocampo». Il ct, però, è irremovibile e il risultato sarà uno dei più clamorosi – e fortunati – ammutinamenti tattici della storia del calcio.
Quanto a Netzer la controfigura, il suo Mondiale consisterà di venti minuti e la medaglia dei campioni, la seconda dopo quella conquistata agli Europei del 1972, quando però era stato lui il trascinatore della Germania Ovest, bello e scandaloso come solo i ribelli. In un Paese in cui tutti sognano un genero come Franz Beckenbauer (almeno finché questi non avrà un figlio fuori dal matrimonio), Günter è il primo calciatore tedesco a osare – mein Gott – i capelli che scendono a toccare le spalle. Potrebbe ricordare George Best – e sono in tanti ad accostarli – ma senza eccessi etilici. Le macchine quelle sì, e nel 1970 quasi si uccide schiantandosi con la sua leggendaria Ferrari Dino 246 GT. Colore? Verde, naturalmente, come il Borussia Mönchengladbach, il club che con lui (nel duplice senso di insieme e grazie a lui) domina il calcio tedesco a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Netzer ci arriva nel 1963, quando a 19 anni viene promosso in prima squadra da Hennes Weisweiler, il guru tedesco di quello che oggi chiameremmo gioco di transizione e che allora veniva opposto a quello del Bayern Monaco di Udo Lattek, più fedele alla scuola continentale del possession game. Negli anni in cui ad Amsterdam si fa il calcio totale, sulle rive del Reno si segue una via alternativa ma altrettanto offensiva, fatta di ripartenze fulminanti e improvvisi cambi di gioco. Ci fossero anche difesa a zona e pressing, sarebbe Jürgen Klopp con quasi trent’anni d’anticipo. La chiave di tutto è Günter Netzer, nato nel 1944 nella Ruhr martellata dai bombardamenti: senza il suo dono del passaggio, niente sarebbe possibile. Sa passare la palla in tutti i modi e a tutte le distanze, ma soprattutto riesce a capire quando è il momento giusto per calciare, al punto che Weisweiler una volta spiega così il fuorigioco: «È quando quello stupido spilungone passa la palla troppo tardi». Non che succeda spesso. E se anche succede, il tecnico, che per dieci anni combatte con l’insofferenza di Netzer a qualsiasi forma di autorità, non se la prende mica con lui: «Günter, oggi hai sbagliato 40 passaggi. In futuro pretendo che tu provi a fare anche il quarantunesimo. Non smettere mai di giocare rischiando».
Netzer non chiede di meglio, anche perché la tendenza a cercare passaggi dove nessuno li vede ben si accorda con il suo temperamento anticonformista: capelli a parte, è il primo giocatore tedesco a preferire Bob Dylan e i Rolling Stones al pop nazionale, a frequentare mostre d’arte alternativa e registi indipendenti e mentre tutti sposano la fidanzatina del liceo, lui esce con una misteriosa dark lady. Fuori dalla Germania, i suoi più grandi ammiratori sono gli inglesi, che ancora non si capacitano del suo magico duetto con Beckenbauer a Wembley nell’aprile del 1972, quando i tedeschi regolano 3-1 l’Inghilterra: ogni volta che Netzer avanzava, subito Beckenbauer va a occupare il posto lasciato libero da lui, ogni volta che è il Kaiser a farsi avanti, Günter scala indietro e riempie il suo spazio. A quasi vent’anni dall’Ungheria, certe cose a Londra continuavano a fare notizia, evidentemente. D’altra parte, per Netzer il 1972 è un anno da incorniciare, con la Coppa di Germania, il titolo Europeo con la nazionale e il secondo posto nella classifica del Pallone d’Oro, alle spalle del solo Cruijff, che pure gli Europei li aveva guardati in tv perché l’Olanda non si era nemmeno qualificata.
«Io ero bravo, ma lui…», dirà Günter ripensando a quando, nell’autunno del 1973, lui e Johan si ritrovano sui ranghi opposti della rivalità più accesa di Spagna: Cruijff el Salvador del Barcellona, Netzer il più galactico del Real Madrid, proprio nella stagione che porterà al Mondiale tedesco del 1974. Entrambi hanno lasciato sbattendo la porta i club in cui sono cresciuti, entrambi con una fascia da capitano quale casus belli. A Johan l’ha tolta la votazione traditrice dei compagni di squadra, a Günter l’allenatore Weisweiler in persona, stanco delle sue continue insubordinazioni. Solo che glielo ha comunicato giusto alla vigilia della finale di Coppa di Germania contro i rivali del Colonia e i compagni – a cominciare proprio da Berti Vogts – a stento sono riusciti a convincerlo a non fare le valigie e partire subito per Madrid, dove il contratto con il Real aspettava solo la firma. Il 23 luglio 1973 il capitano senza fascia si ritrova a cominciare in panchina la sua ultima partita con il Gladbach. Che senza lui a dirigere il gioco, non è quello di sempre e infatti all’intervallo non va oltre l’1-1. Weisweiler allora va a chiamare Netzer. Che entri e ci pensi lui, insomma. «Io? Non esiste proprio», risponde Günter alzando a malapena lo sguardo. Solo mentre le squadre aspettano di tornare in campo per i supplementari – al 90’ il risultato non è cambiato – il capitano senza fascia, chiamato dai cori della sua gente, si alza dalla panchina e va dal giovane Christian Kulik, a terra visibilmente dolorante. «Ce la fai a continuare?», gli chiede. «Non ne ho più», risponde il ragazzino. Netzer allora si toglie la tuta ed entra in campo. «Ich spiel dann jetzt». Adesso gioco, mormora passando davanti a un esterrefatto Weisweiler. E siccome anche se non ha la fascia è sempre il capitano e pure il più forte di tutti, segna il gol del definitivo 2-1, regalando al Borussia un ultimo trofeo prima dell’addio. Dopo la partita, è già tempo di parlare di Real: «Mi preoccupa solo una cosa – dice Günter – Mi hanno detto che in Spagna ci sono regole molto severe. Dicono che dovrei tagliarmi i capelli e portare la cravatta, ma è fuori questione. Posso prendere in considerazione la cravatta, ma nessuno mi porterà mai dal barbiere».
In effetti, quella sulla pettinatura non è l’unica regola che avrebbe infranto a Madrid. Una volta, nel gennaio 1973, quando è fermo per un infortunio muscolare, lo chiama Michael Pfleghar, un regista suo amico che in passato è uscito con la figlia di Frank Sinatra, Tina. «Prendi spazzolino e abito da sera, ti aspetto domani a Londra e poi andiamo al matrimonio di Tina a Las Vegas». Netzer pensa a uno scherzo e ribatte che non ha un abito da sera: «Allora solo lo spazzolino da denti, lo smoking lo prendiamo a Londra». Ma se senza abito da sera si può prendere un aereo, difficilmente ci si riesce senza passaporto, e quello di Netzer ce l’ha il Real Madrid, che ha requisito i documenti di tutti i giocatori proprio per impedire le fughe clandestine. «Ho parlato con un tizio dell’ambasciata, ci pensano loro», insiste Pfleghar.
Così, mentre il Madrid si allena per la partita contro il Murcia, Netzer nasconde i famosi capelli biondi sotto un cappello a larghe tese e, armato di passaporto falso, si presenta in aeroporto certo di essere scoperto. Invece il piano funziona e due giorni dopo – risolto anche il problema abito da sera – Günter è seduto a un tavolo del Ceasar Palace che ascolta Frank Sinatra attaccare Come fly with me nel suo primo concerto dopo 5 anni di assenza dalle scene. Accanto a lui c’è Neil Diamond, che ci rimane malissimo quando scopre che il football che gioca Netzer è in realtà soccer. «Non è che voi ragazzi volete andare a vedere Elvis? Suona stasera all’Hilton» chiede il padre della sposa mentre gli stringe la mano. Netzer sa che in quel preciso momento dovrebbe essere a casa a curarsi i muscoli, ma come si fa a dire di no a Sinatra e a Elvis in un colpo solo? Nel giro di un’ora, lui e Pfleghar sono seduti davanti a una bottiglia di champagne, mentre le note di Thus spoke Zarathustra riempiono l’aria insieme ai riflessi del costume di scena di Elvis Presley, bianco come la maglia del Real. La storia, brillantemente raccontata da FourFourTwo, non è ancora finita, perché quando torna ad allenarsi, Netzer viene avvicinato dal centrocampista Ingacio Zoco, che candidamente gli chiede se per caso ha guardato la tv nel fine settimana, «perché hanno dato in diretta lo show di Sinatra e mia sorella giura che fra il pubblico c’era uno identico a te». Pausa. Netzer il ribelle stavolta trema sul serio. «Devi avere un sosia da qualche parte, Günter».
Zoco non poteva sapere che era lui a essere il sosia, anzi la controfigura, solo non di se stesso ma di Cruijff, che solo pochi giorni dopo la fuga a Las Vegas incontra in campo nel Clasico più famoso di tutti i tempi, che il Barça vince 5-0. E quando sulla panchina blaugrana arriva Hennes Weisweiler, l’ex allenatore di Netzer pensa di aver visto tutto quanto a litigate con i giocatori insubordinati, ma Johan riesce ad andare oltre qualsiasi alzata di testa della sua controfigura, scatenando la protesta che nel 1975 costringe il club a licenziare il tecnico per fare sì che la squadra si presenti in campo. Cose da ribelli, appunto. Cose da numeri 10 che non giocano con il 10 – il 14 Cruijff, il 12 Netzer, quello del portiere di riserva. Cose da persone straordinarie, quelle che, come dice lo stesso Netzer in una bella intervista a 11Freunde, «entrano in uno spazio e quello spazio si modifica». Il calcio totale in fondo non è altro che questo.