Love is Blind. Nel nome del padre, del figlio e di Aiace

Prima il mito, poi la storia. Il mito è quello di Aiace Telamonio, fra i più valorosi e celebrati degli eroi omerici, la storia quella della squadra che due millenni dopo la messa per iscritto dell’Iliade, prende il nome da uno dei suoi protagonisti. Come se non bastasse l’assillo del paragone con il cugino Achille, Aiace si portava dietro anche il dovere di fare onore alla memoria del padre Telamone, che aveva preso parte alla spedizione degli Argonauti, la più grande impresa che il mondo avesse conosciuto prima della guerra di Troia. Ma quando nel marzo 1900 i fratelli Han e Johan Dade insieme ad altri 3 soci danno vita all’Amsterdamsche Football Club Ajax non potevano aver letto Freud – L’interpretazione dei sogni era uscito da pochissimo, tutto il resto di là da venire – e così, invece di puntare sull’altro Aiace, il figlio di Oileo – che con il calcio sarebbe stato a suo agio, visto che fra le sue imprese annoverava quella di aver usato come una palla la testa mozzata di Imbrio – scelsero il più celebre Telamonio, non badando né al delirio paranoico che l’avrebbe indotto al suicidio, né ai difficili rapporti con i modelli familiari.
Perciò, quando danno dell’ echte Ajacied a un giocatore, i tifosi dell’Ajax vogliono dargli dell’eroe, mica del complessato, figuriamoci del paranoico. È il coro più bello che possano cantargli, vuol dire sei uno di noi e ti meriti di giocare con l’effigie di Aiace sul cuore.

La prima volta che ha sentito il suo cognome riecheggiare allo stadio dentro a quel coro, Daley Blind andava alle elementari e in completa tenuta da gioco entrava in campo all’Amsterdam Arena mano nella mano con il capitano dell’Ajax. Che poi era il blinddestinatario del coro: Danny Blind, una vita con la maglia di Aiace, secondo per presenze al solo Swart e primo fra gli eroi che nel 1995 portano ad Amsterdam Champions League, Coppa Intercontinentale e Supercoppa Europea. Allenatore Louis van Gaal, in campo una generazione di fenomeni, destinati ad andare a occupare di lì a 20 anni le panchine più prestigiose d’Europa. Incluso il suo capitano, “un leader nato”, come lo definisce lui, che quando abbandona la difesa dell’Ajax viene subito nominato allenatore della squadra A1, l’equivalente della Primavera. È il 1999 e nelle giovanili dell’Ajax gioca suo figlio. Daley, appunto, che ha 9 anni e sogna di tornare a sentire quel coro con dentro il suo nome.
A 16 anni, torna a casa dall’allenamento e trova una notizia: «Ti vuole l’Arsenal». A lui viene da ridere: «State scherzando, vero?» Insieme ai genitori prende un aereo per Londra, parla con i dirigenti e si fa spiegare tutte le agevolazioni che il club è pronto a mettere a sua disposizione. Da buoni genitori olandesi, Danny e Yvonne lo lasciano libero di scegliere, con la sola condizione che a Londra vada a vivere in una famiglia e finisca la scuola superiore. Senonché, all’Ajax non ci stanno a farselo scippare e gli propongono un contratto da professionista. Highbury sarà anche fantastico, ma i tifosi dell’Arsenal mica lo cantano quel coro là. E Daley quel coro ce l’ha in testa da quando aveva 5 anni. No grazie, resto ad Amsterdam. A 18 anni debutta in Eredivisie, a 19 sulla panchina dell’Ajax Martin Jol prende il posto di Marco van Basten e come suo vice vuole Danny Blind. La prima cosa che fa Daley quando sa dell’arrivo del padre è annunciare alla famiglia che se ne va di casa, «perché non avevo nessuna voglia di dover cenare tutte le sere a tavola con lui dopo una giornata di allenamento ed essere costretto a discutere di cose di cui non ero contento». Da buoni genitori olandesi, Danny e Yvonne non fanno una piega.
La prima cosa che fa l’Ajax, invece, è cercare una squadra che voglia in prestito il giovane Blind: la spunta il Groningen e Daley lascia subito il suo nuovo appartamento di Amsterdam per trasferirsi giù al nord. Quando torna, passa un’estate con le valigie pronte perché all’Ajax nel suo ruolo – terzino destro – ci sono già 2 giocatori molto più grandi ed esperti di lui. Alla fine Jol decide di tenerlo: apriti cielo, tutti a dire che l’ha fatto per fare contento il suo vice e che questo ragazzino non giocherà una partita. Del coro che sentiva da bambino, a Daley resta un’eco lontanissima.

Le prime apparizioni sono un disastro. Pubblico e stampa gli rimproverano innanzitutto il nome e la discendenza e poi anche il fisico, troppo esile –dicono – per il calcio professionistico. Il ventenne Daley non la vive benissimo: «Se commettevo un errore, era difficile dimenticarselo in fretta e pensare ok, il prossimo passaggio andrà meglio. Così ho cominciato a giocare in modo più prudente, correndo meno rischi». E il pubblico ha cominciato a dire che non aveva personalità. Invece Daley dimostra di averne eccome, blind1quando per combattere l’ansia decide di farsi aiutare da uno psicologo, che gli dà un suggerimento molto semplice: invece di fare il duro isolandosi con le cuffie, scambiasse due parole con i compagni o qualcuno dello staff prima di scendere in campo. Funziona. Il presunto raccomandato diventa un insostituibile, prima sulla fascia sinistra, poi a centrocampo, come da felice intuizione di Frank de Boer, che ne sfrutta la visione di gioco. Fra 2011 e 2014 vince 3 campionati consecutivi con l’Ajax, impresa che non riusciva dai tempi di papà Danny. Daley Blind is een echte Ajacied, canta l’Amsterdam Arena, finalmente.

Ci sono entrambi i Blind sull’aereo che porta in Brasile la nazionale olandese nell’estate 2014. Danny è il vice del ct Van Gaal e la federazione ha già fatto sapere che ne prenderà il posto nel 2016, al termine dell’interregno di Guus Hiddink. A Mondiale finito, l’ex tecnico dell’Ajax farà le valigie per Manchester, dove lo aspetta la sfida del dopo Ferguson. Intanto, nel suo undici titolare non può fare a meno dell’ex mascotte del suo Ajax, Daley appunto, che con l’Olanda arriva a un passo dal ripetere dopo 40 anni la finale con la Germania, stavolta riunificata. I rigori nella semifinale con l’Argentina negano l’ennesima puntata di una rivalità storica, ma regalano all’Olanda la soddisfazione di lasciare fuori dal podio il Brasile padrone di casa, sconfitto 3-0 nella finale per il terzo netherlands-blindposto. Nel tabellino c’è la firma di Daley Blind, che da Rio, oltre a una foto ricordo con il padre sotto al Cristo del Corcovado, si porta via pure i complimenti di un bel po’ di osservatori, a cominciare da Thierry Henry, che lo definisce “il migliore per distacco”. Henry – bandiera di quell’Arsenal cui il giovane Blind aveva detto no – non poteva saperlo, ma le sue parole sono per Daley una specie di benedizione: «Lui per me era un idolo. Quando giocavo per la strada, volevo sempre essere lui». Quando giocavo per la strada – ci può essere una frase più olandese di questa?

Le 5 settimane passate ad allenarlo, convincono Van Gaal a chiedere al Manchester United di comprargli Blind. Detto fatto, all’Ajax arriva un’offerta da 18 milioni di euro. Telefonano a Daley: «Ti vuole il Manchester». Stavolta lui non si mette a ridere. Dopo 103 presenze con la maglia di Aiace, accetta. Va a vivere in centro, si sposta usando la bicicletta che si è portato da Amsterdam. Senza casco. Ci risiamo: i giornali gli danno dell’irresponsabile e lo accusano di essere il cocco di Van Gaal, che gli permette questi comportamenti da incosciente. L’impatto con la Premier League è durissimo: «La tensione ai Mondiali era niente paragonata a come mi sentivo prima del mio debutto contro il QPR. Alla fine della partita non stavo in piedi per i crampi, non ero abituato a tanta intensità». Ma il cambio di ritmo gli farà solo bene.

Nell’agosto 2015 Guus Hiddink lascia la panchina dell’Olanda e la federazione promuove al suo posto Danny Blind con un anno d’anticipo. Per la prima volta Daley lo avrà come capo allenatore, «ma lo chiamo papà solo se mi sta molto vicino e non ci sente nessuno». Il debutto è pessimo, 2 sconfitte e gli Europei di Francia un miraggio. «Si salva solo Daley Blind, si vede che gioca in un campionato di un altro livello», scrive Johan Cruijff all’indomani del disastro. Vent’anni dopo, tocca a Daley prendere per mano il papà. In fondo l’Olanda ha almeno un buon motivo per sperare: a due Aiaci, non c’è Troia che possa resistere.

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