Se non ci fosse stato lui, forse l’Ajax non sarebbe diventato il grande Ajax, l’Olanda non sarebbe diventata l’Arancia Meccanica e Cruijff magari avrebbe giocato con l’11. Se non ci fosse stato Piet Keizer. Primo giocatore professionista del calcio olandese, probabilmente quello che più di tutti ha reso possibile per l’Ajax la transizione a quello che poi sarebbe stato battezzato come calcio totale. Già nel 1974 Cruijff riassumeva la sua grandezza facendone una questione di visione: «Lo avete mai visto rincorrere per 30 metri un difensore? Mai. Quando perdeva la palla, gli bastava un passo per evitare di dover correre quei 30 metri. Sapeva mettersi in modo tale che il difensore sarebbe prima corso in avanti, ma poi non avrebbe potuto prendere la palla. Quel passo era la cosa più importante».
Un passo al di là, fra la bruma della società olandese dei primi anni Sessanta e l’Amsterdam pronta a sbocciare insieme a tutti i suoi tulipani – e non è un caso che lo faccia a dicembre. È facile dire che Piet Keizer è stato quello che ha fatto scappare Cruijff dall’Ajax, ma la verità è che è stato quello che ce lo ha fatto arrivare, e forse anche per questo Johan gli perdonò presto di aver accettato la fascia di capitano dopo quella sciagurata votazione nell’estate del ’73.
Se non ci fosse stato Piet, Johan non sarebbe stato lo stesso. Nella sua autobiografia, Cruijff racconta dello stretto legame che lo univa a Keizer – maggiore di lui di 4 anni – ai tempi in cui cominciava a frequentare con una certa regolarità gli allenamenti della prima squadra: si assicurava che andasse a dormire presto e non si facesse vedere in giro dopo le nove e mezza di sera, per evitargli di cadere in disgrazia con il severissimo allenatore Rinus Michels. Un comportamento da fratello maggiore, quale del resto Keizer si era sempre sentito nei confronti di Cruijff, nel quale in un certo senso gli sembrava di rivedersi già quando era ancora molto giovane. L’aiuto di Piet, però, non si ferma qui e Cruijff non sarebbe stato lo stesso senza di lui non solo perché gli aveva tracciato la strada firmando il primo contratto da professionista e insegnandogli a comportarsi da tale. Piet Keizer è stato decisivo anche da un punto di vista strettamente tecnico – e sì, a Cruijff evidentemente si poteva insegnare qualcosa quanto a tecnica individuale. D’altra parte, nel romanzo di formazione di tutti i più grandi giocatori arriva il momento in cui un personaggio più anziano prende da parte l’animoso protagonista per ricordargli di ricominciare sempre dai fondamentali: Jimmy Murphy che mette il giovane Bobby Charlton davanti a un muro e gli prescrive un’ora al giorno di tiri, con tutti e due i piedi prego.
Cruijff non ha bisogno di un muro, anche perché sotto casa sua a Betondorp i muri non mancano e non c’è neanche il rischio che il pallone finisca in un canale. E nemmeno di qualcuno che gli dica di tirare con entrambi i piedi, per quello bastavano l’istinto e le ore di esercizi con Jany van der Ven, maestro di almeno tre generazioni di Ajacidi nelle giovanili. Piuttosto, aveva bisogno di un passo al di là che lo facesse passare dall’avere un buon tiro al riuscire a tirare da tutte le posizioni possibili e anche da qualcuna impossibile – quella del gol all’Atletico Madrid, per esempio. È questa la lezione di Piet Keizer, come la racconta Cruijff al quotidiano Het Parol nel 1966, quando dai fatti erano passati pochi anni: «Quando giocavo nella squadra B-junior, è stato lui ad aiutarmi a imparare a tirare meglio, perché vedeva che non avevo molta forza. Così mi ha detto, non devi tirare con le gambe, ma con tutto il corpo e stare rilassato. È rimasto con me tutto il tempo finché non ci sono riuscito. Mi ha anche insegnato come calciare per dare alla palla ogni tipo di effetto». Non s’era mai visto che il miglior giocatore dell’Ajax si mettesse a dare ripetizioni a un ragazzino delle giovanili e infatti il comportamento di Keizer stupiva anche Cruijff: «Giocava in prima squadra, ma non aveva lo stesso atteggiamento di tutti gli altri grandi nomi». Al punto che in cambio di quelle lezioni extra Piet non voleva niente, anzi. D’altra parte, che il loro fosse un legame speciale non erano i tiri in porta a testimoniarlo, quanto il fatto che Johan fosse la sola persona autorizzata a poter guidare il motorino di Keizer oltre a lui. «Quando era via con la nazionale, io potevo prendere il suo motorino, anche se lui non lo prestava mai a nessuno. Io potevo. Non se la prendeva mai».
Si sono voluti bene veramente, Cruijff e Keizer, e sono stati di ispirazione l’uno per l’altro. Johan ha sempre fatto il nome di Keizer quando doveva spiegare i movimenti di un’ala sinistra. Piet, che odiava i giornalisti, si concesse una deroga dal divieto autoimposto a concedere interviste soltanto una volta, nella pancia del De Meer nel 1966, e soltanto perché c’era anche Johan. Chi scrisse quell’intervista raccontava che non s’era mai visto un Keizer così rilassato e pronto alla battuta di fronte alla stampa: «Noi siamo cresciuti qui, ma io sono venuto su meglio, vero Cruijffie?» Entrambi sono andati avanti per la loro strada e solo per quella: nessuno è mai riuscito a convincere Cruijff a lasciar perdere il calcio, nessuno ha saputo convincere Keizer a riprenderlo in mano. Se ne sono andati per la stessa malattia a nemmeno un anno di distanza l’uno dall’altro. Compagni di strada anche quando le strade si sono separate. Solo così non ci si lascia mai.