Quo vadis, baby? Tempo, spazio e libertà alla prova Sané

Il breviario del calcio totale abbonda di paradossi, iperboli e similitudini ardite, ma una frase come questa ancora non c’era: «Quando non ha la palla, è un giocatore come ne ho visti pochi in vita mia. È quando ha la palla che deve ancora migliorare». Mai Pep Guardiola – che pure è un tipo loquace – si era espresso così su un giocatore allenato da lui. Tutto quello che ha a che fare con la palla, soprattutto il primo controllo, è dato praticamente per scontato, se non altro perché è più facile da esercitare. Normalmente i problemi arrivano quando c’è da spiegare ai giocatori come muoversi quando non hanno il pallone fra i piedi. I più intelligenti – Iniesta, Lahm – lo capiscono prima e meglio degli altri. Alcuni hanno bisogno un apprendistato più lungo. E poi ci sono le ali sinistre, là dove il calcio totale incontra i suoi limiti. In fondo, la prima grande eresia di Guardiola fu proprio togliere Messi da quella posizione tendente all’anarchia per inventarlo falso centravanti. Il tormento e l’estasi con le ali sinistre è che con il pallone sanno fare quello che vogliono ed è maledettamente difficile convincerle a interessarsi al gioco quando non ce l’hanno.

L’eccezione che ha fatto dire a Guardiola quello che forse mai avrebbe pensato si chiama Leroy Sané, ed è la cosa più bella che si sia vista nei recenti ottavi di Champions League. Talmente bella che a guardarlo veniva da chiedersi se per caso Pep non stesse scherzando: nasconde il pallone stretto fra un nugolo di avversari e la linea del fallo laterale, poi cambia passo e di colpo te lo ritrovi a ridosso dell’area piccola, pronto per mettere la palla in mezzo lanciando appena un’occhiata al secondo palo, dove un compagno avrebbe dovuto solo spingerla in rete. Quei cinquanta metri di slalom in solitaria avrebbero fatto sorridere Cruijff e infuriare Van Gaal. Guardiola, invece, si grattava la testa. Perché questo ragazzino che dribbla come un’ala, rifinisce come un dieci e corre come se non ci fosse un domani, sembra sfuggire anche alla numerazione alternativa del calcio olandese e per la prima volta mette Pep di fronte a un problema che mai avrebbe pensato di avere. Un giocatore troppo bravo senza palla. «Come si ferma negli spazi e poi riparte – nella mia vita l’ho visto fare a pochi giocatori. È così aggressivo quando non ha il pallone».

A Gelsenkirchen, dove Sané è cresciuto calcisticamente nelle giovanili dello Schalke 04, queste cose le sapevano già. Nella stagione e mezza giocata in Bundesliga, è rimasto negli occhi il suo assolo di 73 metri sul campo del Wolfsburg, ma nessuno può dire di avergli mai visto dominare una partita dall’inizio alla fine e non di rado è parso stranamente disordinato nel primo controllo di palla. Il problema con Sané non è che gli manca qualcosa – tecnica, altruismo, fantasia, intraprendenza. Il problema è che tutte queste cose in lui hanno sempre viaggiato sui binari dell’altissima velocità. E così se anche non arrivava concentratissimo al primo tocco, rimediava con il cambio di passo. Finché si trattava di settore giovanile, funzionava perfettamente, ma Norbert Elgert – il guru del calcio giovanile tedesco, maestro, fra gli altri, di Neuer, Özil e Draxler – si era accorto che tutta questa velocità innata in qualche modo condizionava il suo modo di pensare. Ma come si fa a dire a un giocatore di andare più piano, a maggior ragione in un calcio che tende ad alzare i giri sempre più?

Probabilmente Sané non ci riuscirebbe nemmeno se volesse, perché l’unica cosa che in tanti anni di sport non ha mai allenato è proprio la rapidità. Se l’è ritrovata nei cromosomi grazie a papà Samy, senegalese di nascita e tedesco d’elezione, fra i primi giocatori africani della Bundesliga. I tifosi della Roma se lo ricordano bene per un gol sanesegnato al Flaminio nel settembre del 1988, quando vestiva la gloriosa maglia del Norimberga e aveva un personale sui 100 metri di 10”7. Figlio di diplomatici senegalesi assegnati in Francia, Samy era finito a fare il servizio militare in una base a ridosso della Foresta Nera. Lì era stato notato dagli osservatori del Friburgo, con il quale avrebbe segnato la bellezza di 56 gol in 106 partite fra il 1985 e il 1988, prima di trasferirsi in Baviera e quindi nella Ruhr, a Wettenschied, dove sarebbero nati i suoi tre figli. Per il secondo, arrivato nel 1996, Samy Sané ha scelto un nome che rendesse omaggio all’allenatore leggenda del calcio africano, Claude Le Roy, solo scritto in una sola parola. Così Liroy – come da pronuncia tedesca – fin da piccolo è stato avviato al calcio insieme al fratello maggiore, con cui ha condiviso anni di lunghi viaggi in macchina fino a Leverkusen. Il salto, però, è arrivato alla scuola Schalke, dove Jens Keller lo ha fatto debuttare in Bundesliga appena diciottenne. Mezza Europa, invece, si è innamorata di lui vedendolo fare a pezzi il Real Madrid a marzo del 2015: sinistro nell’angolino da 18 metri, Casillas al massimo sente sibilare il pallone quando è troppo tardi. «Questo di sicuro non l’ha ereditato da me – commentava papà Samy all’indomani dell’exploit – I gol da quella distanza non li ho mai saputi fare».

Eppure non sono i gol la cosa che il piccolo Leroy sa fare meglio. La sua specialità è qualcosa che ha a che fare con il calcio, ma non con il pallone: quando gli spazi sono stretti e c’è poca aria da respirare, quando gli si fanno sotto due o tre avversari e la palla gli arriva un attimo prima che uno di loro si lanci in scivolata per contrastarlo, lui di colpo si ferma – e anche il mondo smette di girare. Quando gli avversari vanno a cercare di fermarlo là dove pensano che sia – come è stato loro insegnato alla scuola calcio e come le leggi della fisica vorrebbero – si trovano a contrastarsi fra di loro nel vuoto, perché lì Leroy non c’è. Lui che nel frattempo ha rimesso in moto il mondo è già altrove, possibilmente in porta, nello spazio che si è liberato grazie al suo fermo immagine. L’effetto è quello di un movimento che cambia improvvisamente direzione, ma è stata l’immobilità a provocarlo. Un colpo che sembra uscito dal repertorio di un altro calcio, perché in quello di oggi sembra non esserci tempo né spazio per fermarsi. Era la firma di Piet Keizer, che non è mai stato un velocista, ma, diceva Sjaak Swart, «quando si fermava e poi calciava poteva tagliare fuori mezza squadra avversaria».

Per gli slalom ci vuole velocità, per fermare il mondo ci vuole grazia. Se la prima Leroy l’ha presa dal papà, quest’ultima viene dalla mamma. Regina Weber è stata medaglia regina.weberd’argento nel concorso individuale di ginnastica ritmica a Los Angeles ’84, prima e finora unica medaglia tedesca nella specialità. Se Leroy non si muove e non sta fermo come un calciatore, il merito è suo. Quando è in piedi rilassato, il ragazzo tiene i piedi con i talloni uniti e le punte rivolte verso l’esterno, neanche fosse in una classe di balletto. Il suo modo di correre, con il pieno controllo del cambio di peso e perfettamente bilanciato, è più adatto a un palcoscenico che a un campo di calcio. Che il suo non sia un fisico come gli altri è stato subito chiaro anche ai fisioterapisti della nazionale alla sua prima convocazione con Löw: dopo una seduta intensa chiusa da una partitella otto contro otto, è stato l’unico ad arrivare sul lettino dei massaggi con i muscoli rilassati.

Inclassificabile. Paradossale, come Guardiola quando dice che deve migliorare con la palla. Perché il problema di Sané è che sa benissimo cosa fare quando non c’è spazio (per questo va tanto spesso a cacciarsi in pochi centimetri quadrati a ridosso della linea del fallo laterale) e anche quando non c’è tempo perché gli vanno addosso in tre. «Qualche volta si perde la giocata successiva quando non è pressato», ha spiegato Pep. Troppa libertà dà le vertigini. Forse allora è questa, la lezione impossibile che dovrà imparare Leroy, fare le cose che fa anche senza essere braccato. Nella galassia anarcoide dell’ala sinistra non s’era mai vista una stella così.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *