C’era una volta un uomo da solo in una stanza d’albergo. La fanno sempre cominciare così, la storia di Willem van Hanegem, come se il momento che le dà forma fosse quell’ora di amarezza: Olanda e Germania al banchetto conclusivo del Mondiale 1974, lui no. Come se la sua assenza avesse davvero stupito qualcuno. Lui che in fondo non s’era visto nemmeno alla premiazione. Lui che se n’era andato voltando le spalle allo stadio e all’intero Paese, senza stringere nemmeno una mano, figuriamoci scambiare una maglia. La storia di Wim van Hanegem viene spesso schiacciata sulla bidimensionalità di un odio ostinato perché radicale, quando invece a renderla speciale sono le sue curvature. Una delle argomentazioni più affascinanti ed efficaci di David Winner nel suo “Brilliant Orange” è che il calcio olandese trovi la sua unicità in un peculiare senso dello spazio, lo stesso che si incontra esemplarmente nell’arte e nell’architettura. Van Hanegem diventa allora uno degli interpreti più originali di questo calcio che vive – anche – nella curvatura dello spazio.
A Rotterdam lo chiamavano De Kromme, lo storto, e non solo per le gambe arcuate. Il fatto è che fin da quando da bambino giocava per la strada, Van Hanegem aveva sempre preferito colpire la palla in modo bizzarro, usando l’esterno del piede. Di fatto quando calciava né lui né i suoi avversari sapevano bene che giro avrebbe preso la palla: una curva, questo sì, una bellissima curva che si sapeva dove cominciava ma non dove sarebbe finita. Per strada andava anche bene, solo che Wim non aveva perso il vizio nemmeno quando, nel 1968, era stato acquistato dal Feyenoord, anzi Feijenoord, come da grafia in vigore fino al 1972. Lì il gusto istintivo per le curve si era razionalizzato: quando diventa il cervello della prima squadra olandese vincitrice della Coppa dei Campioni (1970), ha ormai il pieno controllo di ogni gesto. I tifosi del De Kuip si abituano a quel suo strano modo di toccare il pallone, anche perché le traiettorie dei suoi lanci hanno ormai una precisione millimetrica e al repertorio si sono aggiunti anche calci di punizione da ogni posizione e un gran tiro da lontano. Eppure, nonostante tanta inopinata bellezza, non è questo che fa innamorare la gente di Rotterdam. Wim lo storto è amato innanzitutto perché incarna perfettamente l’anima portuale del Feyenoord, perché è un duro. L’allenatore, il viennese Ernst Happel, sperimenta per la prima volta al di qua della Cortina di ferra e dell’Atlantico la marcatura a zona in tutto il campo, quindi dalla sua posizione in mediana Van Hanegem non ha un avversario diretto cui badare: le marcature scalano a seconda dello spazio di gioco, il che vuol dire che nessuno degli avversari può sentirsi al sicuro dai suoi implacabili tackle. Un tipo di giocatore particolarissimo e forse caratteristico del calcio olandese dei primi anni Settanta, che paradossalmente è passato alla storia grazie all’altro suo grande interprete, Johan Neeskens, che in un certo senso si ritrova il ruolo già delineato proprio da Van Hanegem.
D’altra parte, Neeskens non era storto e poi piaceva a Rinus Michels. Su Wim, invece, il futuro allenatore della nazionale olandese, non era mai stato del tutto convinto. «Già nel 1973 mi considerava lento e superato», ha raccontato lo stesso Van Hanegem molti anni più tardi. È che per disegnare le sue curve, non aveva bisogno di correre, e per fermare gli avversari non serviva rincorrerli – magie della zona, ma questa è un’altra storia. Della nazionale era comunque un punto fermo sia in campo sia nello spogliatoio fin dal 1968. Di una nazionale che non riusciva a qualificarsi a un Campionato del Mondo dal 1938, d’accordo. Quando finalmente ci riesce nel 1974, la spedizione comincia male ancora prima di lasciare l’Olanda. A una manciata di settimane dalla partenza per la Germania, la federazione, messa con le spalle al muro dai giocatori che di fatto sfiduciano il ct František Fadrhonc, chiama disperata Rinus Michels, in quel momento allenatore del Barcellona. Che la porti lui al Mondiale, la nazionale di cui il suo Ajax si è praticamente impossessato. Il Generale Rinus avrà pure le sue riserve sul passo Van Hanegem, ma sa che non può fare a meno dei suoi passaggi millimetrici e ancora meno dei suoi contrasti. Poi ci sarebbe il suo odio radicale, ma quello non è detto che serva.
L’oggetto dell’odio tenace di Wim van Hanegem è il popolo tedesco. Tutto, senza distinzioni. Perché la storia di Van Hanegem, così come viene raccontata di solito, rimanda sempre all’alba dell’11 settembre 1944. È il giorno in cui Breskens, la sua cittadina natale nei pressi di Rotterdam che in quei giorni si trova in piena linea del fronte, è oggetto di un bombardamento della Luftwaffe. Fra le vittime civili ci sono anche il padre, il fratello e due sorelle di Wim, che allora ha poco meno di sette mesi ed è sfollato con la madre in campagna. La guerra in Olanda finisce il 5 maggio 1945. La guerra personale di Van Hanegem contro i tedeschi non finirà mai. «Non mi piacciono. Ogni volta che ho giocato contro di loro, ho avuto problemi per via della guerra», confessava. In effetti, di problemi Wim ne aveva anche quando giocava con i tedeschi: è il suo intervento che chiude le porte della nazionale a Willi Lippens, olandese nato in Germania. «Ogni partita contro i tedeschi mi faceva arrabbiare». Così, come raccontano tutte le narrazioni del 7 luglio 1974, nella finale di Monaco per lui non ne va di un Campionato del Mondo. Ne va della guerra. La guerra che trent’anni dopo la fine della guerra Van Hanegem continua a combattere.
Facile immaginare come la sconfitta sul campo per lui sia ancora più difficile da accettare. «Ci hanno fregato ancora!» è l’urlo sconcertato del radiocronista olandese Herman Kuiphof quando l’arbitro Taylor fischia la fine sul 2-1 in rimonta per la Germania Ovest. Dove quell’ “ancora” viene largamente interpretato come rimando non a un precedente calcistico, bensì all’occupazione del 1940, quando gli olandesi erano andati a dormire tranquilli, convinti che la Germania non li avrebbe invasi perché così aveva promesso. La guerra, appunto. Van Hanegem non riesce nemmeno a guardarli. Lascia il campo e non ci torna nemmeno per ritirare la medaglia del secondo posto, che lo prendano gli altri il premio per quest’altra beffa. Non vuole vicino nessuno, neanche il suo migliore amico e compagno di squadra nel Feyenoord Wim Jansen. Si arriva così all’uomo da solo in una stanza d’albergo, quello di Monaco che ospita l’Olanda campione del mondo, anzi no, perché dopo il rigore di Neeskens si è continuato a giocare. «Non mi interessa se abbiamo giocato bene, loro hanno ucciso la mia famiglia, li odio». Forse mai come questa sera, da solo in una stanza mentre da qualche parte i suoi compagni fraternizzano con i tedeschi (il banchetto ufficiale in realtà si trasforma in un clamoroso flop, ma questa è un’altra storia ancora). Potesse prenderlo a calci, probabilmente il suo risentimento disegnerebbe curve più belle dei suoi passaggi, sfonderebbe qualche rete.
Wim lo storto sarà pure stato lento e superato già nel 1973, ma nel 1975 l’Olympique Marsiglia è disposto a coprirlo di soldi pur di fargli vestire la sua maglia. Lui non sa che fare, allora se ne va a fare un picnic sull’isola di Zeeland con la moglie Truus, l’inseparabile Wim Jansen e sua moglie. Siccome non riesce ancora a decidersi, mette la questione ai voti: due sono per restare, due rimanere. Niente. Allora si volta verso il suo cane: «Dimmelo tu, che devo fare. Se vuoi che parta, abbaia o fammelo capire». Wim e il cane si fissano immobili per diversi secondi. L’animale non si muove. «Ok, restiamo», conclude lui. Ancora oggi per il Feyenoord e per Rotterdam Van Hanegem è una specie di bussola. Al De Kuip sono cambiati allenatori, stili di gioco e pure il grado di civiltà del tifo, ma quello che per Wim non è mai cambiato è l’ammirazione per i giocatori che come lui sanno riunire spirito guerriero e gusto per le giocate curvilinee, i cross, i cambi di campo – sarà per questo che il suo più recente pupillo calcistico è un terzino come Rick Karsdorp. Il gusto tutto olandese per certe giocate minimaliste, anche quello è rimasto. Oltre all’odio per i tedeschi, ovviamente.