Ancora cappotti blu per le strade di Bloomsbury. Otto giorni sono passati da quando i taciturni semi-amatori della Dinamo Mosca – perché per la stampa britannica questo sono – hanno stupito ed entusiasmato 85.000 persone a Stamford Bridge, rimontando il Chelsea da 0-3 a 3-3. È il 21 novembre 1945, un mercoledì, e il tour inglese dei campioni sovietici, che poi è anche la loro prima volta in Occidente, continua con una seconda amichevole a Londra, stavolta a White Hart Lane. Avversari non sono i padroni di casa del Tottenham, perché gli Spurs per l’occasione prestano il loro stadio ai loro acerrimi rivali di Londra Nord, quell’Arsenal campione di tutto che negli anni Trenta si è guadagnato la fama di club all’avanguardia e che adesso aspetta ancora di riavere indietro Highbury, trasformato in centro di controllo aereo. Vent’anni prima, Herbert Chapman era stato quello che con più efficacia aveva saputo rispondere tatticamente alla riforma della regola del fuorigioco del 1925, secondo cui bastava che ci fossero due giocatori dietro la linea della palla per tenere in gioco un attaccante, invece dei tre della precedente versione. Come spiega Willy Meisl nel suo “Soccer Revolution”, Chapman aveva tratto la conclusione più semplice e infoltito la difesa arretrando il centre-half nell’inedita posizione di centre-back, il vertice basso della M che compone il nome con cui il nuovo schieramento è rapidamente assurto a fama mondiale: il WM. Nel corso degli anni Trenta, l’Arsenal aveva vinto quattro campionati e una FA Cup ed era diventato il punto di riferimento per le squadre di mezza Europa. La sua fama era arrivata fino in Unione Sovietica, e infatti ora i giocatori della Dinamo aspettano l’incontro con i Gunners con un misto di trepidazione e ammirazione.
Dopo le reazioni contrastati suscitate dalla loro performance contro il Chelsea – entusiasti gli spettatori, stupiti gli avversari, confusi i giornalisti – hanno dato spettacolo a Cardiff, dove in 40.000 hanno riempito il Ninian Park, incuriositi da questi che la capitale gallese ha accolto offrendo loro delle lanterne da minatore quale regalo di benvenuto, in onore dell’attività prevalente della zona. Contro il giovane e ambizioso Cardiff City, allora in Terza Divisione e dunque considerato dalla stampa un avversario allo stesso livello dei moscoviti, la squadra di Mikhail Yakushin non fa complimenti, imponendosi per 10-1, nonostante si dica che i giocatori di casa abbiano immerso pallone e scarpini in una soluzione a base di soda per renderli più duri. Tutto inutile, perché con le combinazioni dei sovietici, quelli del Cardiff vedono la palla solo quando c’è da andarla a recuperare in fondo alla rete. Archangelski e la stella Bobrov segnano una doppietta a testa, ma a rubare la scena è Kostantin Beskov, che di gol ne fa addirittura quattro – tanto per rispondere a chi dice che allontanando un centravanti dalla porta se ne abbassa l’efficacia realizzativa.
Quanto tornano a Londra, il confronto con l’Arsenal sa di prova del nove. I Gunners, allenati dall’ex editorialista della rivista sociale George Allison, si presentano in formazione ampiamente rimaneggiata: dal QPR è arrivato in prestito Harry Brown, dal Blackpool il nazionale Stanley Mortensen, ma la stella indiscussa è Stanley Matthews dello Stoke City, che con il numero 7 sulla maglia va a fare l’ala destra in un attacco completato da Drury, Rooke, Mortensen e Cumner. A centrocampo gioca la bandiera Cliff
Bastin, ormai prossimo al ritiro. I moscoviti rispondono schierando ancora Beskov centravanti arretrato, ma con Trofimov all’ala destra al posto di Archangelski, per il resto la squadra è la stessa che finora ha segnato tredici gol e ne ha subiti tre. La fila per entrare a White Hart Lane si snoda ben oltre il perimetro dello stadio. Si comincia e l’Arsenal si ritrova sotto prima ancora di essere riuscito a toccare palla, perché Kartsev segna a pochi secondi dal fischio d’inizio – e non lo fa scaraventando il pallone in avanti. L’azione è descritta nei dettagli dal centre-back Bernard Joy, nel suo libro “Forward Arsenal”: “Il centravanti passò la palla all’interno destro, che la giocò subito indietro alla mezzala sinistra. Da lì arrivò il passaggio in verticale per Bobrov il gigante, un interno alla David Jack. Subito il centravanti uscì sull’esterno a tutta velocità, come se la palla fosse già lì. Io andai a raddoppiare su di lui per fermarlo. Troppo tardi. Bobrov spinse la palla nel buco, giusto oltre il mio piede allungato, l’interno destro Kartsev la prese e la mise alle spalle dell’accorrente Griffiths”.
Certi brani di narrazione calcistica meriterebbero una lettura ermeneutica. Il racconto di Joy esemplifica perfettamente lo stile di gioco della Dinamo Mosca, passato alla storia con il nome di passovotchka, in realtà piuttosto diffuso in Unione Sovietica e basato su una minuziosa preparazione fisica. Eppure non è solo corsa: «Il principio del gioco collettivo è l’idea guida del calcio in Russia», spiega Mikahil Yakushin alla stampa britannica. «Un giocatore non deve essere soltanto bravo in generale; deve essere bravo per una squadra in particolare». E allora Stanley Matthews? «Le sue qualità individuali sono alte, ma noi mettiamo il collettivo al primo posto e l’individuo al secondo, quindi non siamo favorevoli al suo stile di gioco perché pensiamo che il lavoro di squadra ne soffrirebbe». I giornalisti inglesi ci vedono ideologia, il calcio totale ci vede la sua essenza. Non a caso, Cruijff in persona affermerà che «nel calcio si fa uso collettivo del talento individuale». Dove il talento individuale non sta tanto o solo nei numeri da giocoliere, quando nella capacità di mettersi in tale sintonia con la squadra, da mettersi a correre “come se la palla fosse già lì”. Se il calcio totale si sviluppa a partire dall’uso consapevole di spazio e tempo, forse non è troppo azzardato dire che la componente temporale gli venga da questa idea di sistema collettivistico in cui a mettere fuori causa un difensore non è lo scatto del singolo in sé, ma quello in relazione al movimento di un compagno. Si gioca a tempo, partecipi tutti dello stesso ritmo, “like a beautifully choreographed dance group”, come scrive David Downing nel suo “Passovotchka”.
Il 21 novembre 1945, comunque, il super Arsenal si vede battere 4-3 dai Silent Ones di Yakushin, che a White Hart Lane stupisce pubblico e avversari con la sua personale cifra tattica, i movimenti senza palla, oltre che con uno schieramento avanguardistico che a tratti assume le sembianze di un 4-2-4. Il 2-2 contro i Rangers davanti ai 92.00 di Ibrox Park è l’ultimo show moscovita in terra inglese, perché l’ultima amichevole, che si sarebbe dovuta giocare a Birmingham contro un Aston Villa imbottito di rinforzi provenienti da ogni parte del Paese, viene cancellata per volere della stessa Dinamo, che riparte per Mosca quasi di nascosto, perché la nebbia allo scalo previsto a Berlino, fa slittare la partenza di quasi 48 ore. La percezione dello strappo nel cielo di carta del solipsistico calcio inglese non è immediata. Eppure qualcosa è rimasto, se non negli esperti, certo nella gente. Dirà Stanley Matthews: «Passarono molti anni prima che tornassimo a incrociare i calciatori russi. Fino ad allora, nel cuore di chi visse in quei giorni, le parole Dinamo Mosca erano associate con l’idea di calcio di classe». Il popolo ha visto, ha capito, ha amato. Per i sovietici non poteva esistere successo più grande.