Muro, fortezza, roccaforte. Sono queste le metafore che si usano di solito per un difensore centrale. Ma Barry Hulshoff era un centrale atipico, e non solo perché aveva studiato da centrocampista. Se Cruijff era la mente del Grande Ajax e Neeskens il suo braccio armato, Hulshoff era l’orecchio – metafora insolita per uno stopper, se ne convenga. D’altra parte, a parlare ci pensava Cruijff, a dare ordini Rinus Michels, per tutto il resto c’era la pazienza infinita di Sjaak Swart. C’era pur bisogno di qualcuno con cui poter parlare liberamente. E poi Barry non lo faceva mica apposta. Non fosse stato per la barba sessantottina, di lui ci si sarebbe accorti a stento. Non aveva l’aura glamour di gente come Wim Anderiessen o Ton Pronk, titolari della difesa dell’Ajax nei primi anni Sessanta, e non camminava preceduto dalla fiducia in se stesso come Piet Keizer.
Tendenzialmente, Barry Hulshoff preferiva restarsene in silenzio. Nelle dodici stagioni con la prima squadra dell’Ajax, i compagni non lo sentirono parlare di sé praticamente mai. In compenso, se erano loro ad avere qualcosa da dire, potevano stare certi che Barry li avrebbe ascoltati. «Un giorno uno dei miei compagni venne da me e si mise a raccontarmi i suoi problemi», la sua ricostruzione nel formidabile “De Ajacieden” di Maarten de Vos. «Poi ne arrivò un altro. Poi un altro ancora. Il che in realtà mi metteva una cera angoscia, perché avevo paura di non conoscerli abbastanza bene e di poter fare per questo qualche osservazione sbagliata». Il suo non era un mero stare a sentire. Era un ascolto rispondente. Ben presto i problemi degli altri cominciarono a coinvolgerlo al punto, che passava la maggior parte del suo tempo a pensare a come risolverli. Se invece era lui ad avere un problema, era capace di chiudersi in macchina per ore a pensare in completa solitudine. La parola “introverso” certe volte sembrava non bastare per lui, che tutt’al più se aveva qualcosa da dire, la scriveva – senza farla leggere a nessuno, chiaro. D’altra parte, con la penna aveva una certa familiarità, visto che scriveva regolarmente per la nota rivista “De Typhoon”, dietro il compenso pattuito di un abbonamento gratuito.
Non erano in molti ad accorgersi di quanto quel ragazzone che sembrava strappato al palco di Woodstock in realtà stesse lottando con se stesso. Contro quella voce interiore che da sempre gli diceva Dai Berry, tu non sei niente di speciale. In fondo era così che l’avevano classificato gli osservatori quando da ragazzino giocava interno sinistro di centrocampo nello Zeerbugia: niente di speciale. Il provino con l’Ajax lo aveva fatto solo perché la famiglia insisteva, e mai avrebbe immaginato che potesse andare bene. In effetti al De Meer non è che fossero esattamente entusiasti: un anno di prova e vediamo come va, così è cominciata la carriera all’Ajax di una delle sue bandiere. Quando a sedici anni viene aggregato alla squadra A-1, l’equivalente della Primavera, lo mettono a fare l’interno sinistro d’attacco. Figuriamoci. Hulshoff non ci si ritrova ed è un attimo a precipitare dalla prima alla settima delle formazioni giovanili. Un disastro. Eppure è proprio da qui che comincia la scalata. Tatticamente è talmente indefinito che perfino i tifosi lo chiamano “Punto interrogativo”. Rinus Michels, che lo tiene d’occhio da un paio d’anni perché sa che la sua difesa andrà necessariamente ristrutturata, lo aggrega alla prima squadra nell’estate del 1965 e ha subito chiaro cosa vuole fare di lui: uno stopper, ma alla sua maniera. Perché nel suo calcio la marcatura a uomo è già stata messa in questione per due terzi del campo, ma in difesa qualche remora ancora c’è. Per poter sganciare dall’inseguimento diretto l’elegante regista difensivo Velibor Vasovic e dare maggiore libertà all’intraprendente Wim Suurbier, c’è bisogno di qualcuno disposto a prendersi delle responsabilità là dietro. In questo senso, Hulshoff è un giocatore modernissimo: rispetto ai centrali della generazione precedente, possiede infatti visione di gioco unita allo spirito guerriero. Sa giocare prendendo come riferimento non l’uomo da marcare, ma i compagni. Sa mettersi completamente al servizio del collettivo e fare letteralmente spazio agli altri, quelli con le idee geniali. Non era il solo ad avere queste caratteristiche – Suurbier, Ruud Krol e lo stesso Neeskens erano altrettanto bravi – ma era quello che più di tutti dava sicurezza alla squadra. Ovviamente senza farsi notare.
Michels si fida di lui al punto da schierarlo, appena ventenne, titolare a Anfield contro il super Liverpool di Bill Shankly in quello che considera un esame di maturità per il suo Ajax. Eppure ha continuamente bisogno di pungolarlo. Non può sopportare di vederlo andare in crisi ogni volta che sui giornali compare un giudizio negativo su di lui. Il fatto è che Hulshoff tende a credere che i giornalisti abbiano ragione – almeno finché non si convince che si dividano in due categorie: «Quelli che se sbagli non ti nominano e quelli che ti nominano solo se sbagli». Tutta questa insicurezza manda fuori di testa Michels, che non perde occasione per provocarlo. Una volta lo chiama prima di una partita e gli comunica che resterà fuori per le successive tre gare. Quando Barry chiede perché, il Generale risponde solo «Perché è meglio così». Dopodiché i due non si parlano per settimane. Un’altra volta, visto che deve fare a meno di Cruijff infortunato, va da Hulshoff e consegna a lui la maglia numero 9. Sì, Barry da centravanti è un mezzo disastro e sì, il giorno dopo le critiche si sprecano, ma Michels le aveva messe in conto. Per spiegargli cosa vuole da lui, si rivolge a Velibor Vasovic: «Vasco, in questa partita voglio che giochi più offensivo, ma non puoi farlo e basta. Bisogna che Barry si occupi degli uno-contro-uno, in modo da lasciar correre te. Questo, però, non è nella sua natura. Quindi sta’ attento». Funziona. Barry impara a marcare a uomo non all’italiana – uno stile che secondo Michels “addormenta” il gioco – ma in modo dinamico, sfruttando lo spazio per mettere in scacco il suo diretto avversario. Più che stargli addosso, lo porta negli angoli. Può concedergli un metro, ma non un secondo.
Chi è riuscito a spiegare meglio il modo di giocare di Hulshoff in tutta la sua attualità, è il ragazzo che oggi gioca al suo posto nell’Ajax. Matthijs de Ligt è nato nel 1999, non ha mai conosciuto le videocassette e nessuno gliene vorrebbe se non sapesse come difendeva
l’Ajax trent’anni prima della sua nascita. Invece lo sa, e non solo perché Barry Hulshoff per due anni ha prestato ascolto anche a lui, fino a consegnarlo non solo alla prima squadra di Peter Bosz, ma anche alla Nazionale di Danny Blind. «Ho la fortuna di essere interessato alla storia, specie quella del calcio. Le prime cose me le ha raccontate Barry, poi ho fatto delle ricerche da solo», ha spiegato il ragazzo in un’intervista a Voetbal Inside. «Barry non era il centrale classico, piuttosto stava davanti alla difesa in un 3-4-3. Una specie di guardiano». E poi il capolavoro: «Se lo descriverei come un difensore che sa giocare a calcio? No, direi piuttosto un difensore che gioca con gli altri (Meevoetballende verdediger)». Forse è questo che rende davvero grande il Grande Ajax, il fatto che riesce a farsi capire ancora così bene nonostante il tempo che continua a passare.
Per me, Barry Hulshoff è stato il più grande stopper della storia del calcio. E se avesse disputato il mondiale del 74 la finale avrebbe avuto un altro esito. Per carità, Rijsbergen era molto bravo, ma il primo era tutta un’altra cosa. E già che ci siamo, vogliamo ricordare anche Horst Blankenburg, che non volle prendere la doppia nazionalità? Considero quest’ultimo uno dei più grandi liberi di sempre, subito dietro a Beckenbauer, Moore e Mauro.
Purtroppo, l’Olanda del 74 non era l’Ajax, come qualcuno poco informato afferma. Vi mancava anche Keizer, splendida ala sinistra, tra i migliori di sempre. E spendiamo pure una parola per Gerrie Muhren, fine tessitore di gioco.
Per finire, intristisce ancora la partenza del numero 14. Senza di lui i lancieri si sono smarriti, ma con lui il Barca non ha raggiunto l’apice europeo. Questo, se ce ne fosse ancor bisogno, per comprendere la meravigliosa chimica di quella squadra.
Grazie per aver realizzato questo sito ed un cordiale saluto da un innamorato del calcio che fu.
Grazie a lei, è un privilegio avere lettori così competenti.
Ancora oggi devo vedere un centrale forte come Barry Hulshoff. Imbattibile nel gioco aereo, forte di piedi, guidava il pressing e accorciava la squadra, leader carismatico, barba, calzettoni corti, spesso goleador, ha rappresentato con i suoi compagni il sogno della piu’ grande squadra di sempre, l’Ajax degli imbattibili!
Apprendo oggi con grande dolore della scomparsa del caro e indimenticabile Barry.
Proprio ieri avevo rivisto il suo goal al Real Madrid, con la gioia che gli aveva illuminato il volto nonostante la barba.
Un altro gioiello della più grande squadra da me vista se ne va; spero solo che la sofferenza sia stata sopportabile.
Addio gigante buono.