Sul finire del 1959, un ragazzo occhialuto si presenta al De Meer per sostenere un colloquio. Ha ventitré anni e vorrebbe lavorare all’Ajax, ma non come calciatore. Nonostante un percorso scolastico accidentato, ha da poco terminato gli studi di fisioterapia e si è occupato di ginnasti e ginnaste. È stato proprio in una palestra che il suo insegnante, il signor Rodenburg, è rimasto colpito dalle sue capacità e ha gli ha chiesto se gli interessi passare al calcio: all’Ajax, il più illustre club di Amsterdam dove Rodenburg ha un posto come custode, tira aria di rinnovamento e magari metteranno mano anche alla sala terapie. Solo dopo aver firmato il contratto, Salo Muller – il ragazzo occhialuto – scopre che tutta l’attrezzatura fisioterapica a sua disposizione consiste in un tavolo di legno e in una coperta. Perplesso, si rivolge all’allenatore, l’austriaco Carl Humenberger, e al medico sociale, il dottor Postuma, per avere il permesso di acquistare un moderno lettino per i trattamenti. I due lo guardano come se fosse pazzo: «Andiamo Salo, non avveleni l’atmosfera. Con questo tavolo siamo andati avanti per cinquant’anni!» D’altra parte, il dottor Postuma ha i modi bruschi di chi vive giù al Nord a Groningen, e ai giocatori che si rivolgono a lui per qualche problema fisico è solito rispondere sbrigativo: «Non c’è niente di rotto. Prendi un’aspirina e gioca.» Bisogna che me lo ricordi, questo trucco dell’aspirina, pensa il giovane Salo Muller mentre si accinge a mettersi al lavoro senza uno staff né un’attrezzatura degni di questo nome. Se la caverà. Ha fatto a meno del mondo, lui.
Il fatto è che quindici anni prima del colloquio al De Meer, Salo Muller stava schiacciato nella folla di persone che le truppe d’occupazione naziste avevano radunato nel teatro Schouwburg – per chi ha familiarità con Amsterdam: il bell’edificio all’angolo del viale alberato che inizia in Alexanderplein, dove gira la maggior parte dei tram cittadini. Ebrei di Amsterdam, catturati e portati in uno dei pochi posti capace di ospitare centinaia di persone – un altro è lo stadio, e più avanti verrà usato anche quello per gli stessi scopi. Salo non aveva ancora sei anni, quando aveva visto i genitori Lena Blitz e Louis Muller, impiegati dell’azienda tessile De Vries van Buuren & Co., in piedi sul palcoscenico fra gli stucchi dorati dei palchi. Fra quelli che li sorvegliavano c’era probabilmente l’ex capitano dell’Ajax, Joop Pelser (ma questa è un’altra brutta storia, e la racconta Simon Kuper nel suo “Ajax, the Dutch, the war”). Salo stava cercando di farsi largo per raggiungerli, quando la mano di un soldato lo aveva afferrato e spinto via. Salo non poteva sapere da cosa era stato appena salvato. Sapeva solo di essere stato separato dai suoi genitori, e il fatto di non poter tornare da loro lo faceva disperare. Per una settimana all’asilo era rimasto seduto a urlare. Poi aveva cominciato a nascondersi, cambiando nome e otto diversi indirizzi e dalla sua Amsterdam era finito in Frisia, dove lo conoscevano con il nome di Japje. Per un anno e mezzo si era occupata di lui una coppia, Klaas Vellinga e Pietje Heddema-Bos. Fingevano di essere i suoi genitori. I suoi veri genitori, invece, sarebbero passati dal teatro al campo di concentramento di Westerbork a quello di sterminio di Auschwitz. Salo sarebbe venuto a saperlo solo dopo il 1945. Del suo mondo prima della fine del mondo gli sarebbe rimasta una frase: «A stasera e fa’ il bravo!» Le ultime parole che gli aveva detto la madre, le stesse che gli ripeteva ogni mattina prima di mandarlo all’asilo – e che sono anche quelle che Salo ha scelto come titolo del libro che racconta questa storia, “Tot vanavond en lief zijn hoor!”
Dopo la liberazione di Amsterdam, il 5 maggio 1945, Salo – che essendo nato il 29 febbraio, non ha potuto festeggiare il suo nono compleanno – torna in città insieme a una zia. Solo che riambientarsi nel mondo dopo la fine del mondo è, a rigor di logica, impossibile. I problemi di apprendimento che manifesta a scuola a dieci anni sono un sintomo che lui toglierà di mezzo abbandonando gli studi prima del diploma. Poi incontra il signor Rodenburg e soprattutto l’Ajax, che non è il suo mondo ma può diventare un mondo. Nel 1964 viene eletto presidente Jaap van Praag, che come Salo si è nascosto per anni e quando è finalmente uscito ha scoperto di aver perso l’intera famiglia. Si dice che il Grande Ajax nasca con i primi due contratti professionistici del calcio olandese, quelli che Van Praag fa firmare ai giovani Piet Keizer e Johan Cruijff. In realtà – e sono gli stessi protagonisti ad ammetterlo, primo fra tutti proprio Cruijff – la pietra angolare era piuttosto Salo Muller. Con una sensibilità fuori dal comune, il giovane fisioterapista non si limita a prendersi cura dei muscoli. Riesce a parlare con i giocatori, a ciascuno nella sua lingua emotiva.
D’altra parte, quando la prima squadra viene affidata a Rinus Michels, non sono solo i muscoli a essere sovraccaricati. Gli sfoghi si sprecano. Nonostante la giovane età, il Generale Michels possiede l’abilità di tenere i suoi giocatori costantemente sul limite delle loro energie nervose. È cura di Salo Muller fare in modo che quel limite non venga oltrepassato. Con una pazienza infinita, ascolta gli sfoghi, si astiene dai consigli non richiesti, rilassa i muscoli devastati dalle sedute di allenamento di Michels. «Alla fine di ogni massaggio, dovevo dire qualcosa di speciale a ciascun giocatore», ricorda Muller intervistato da David Winner in “Brilliant Orange”. «A Cruijff dicevo “Yogi twee”, che significava “segna due gol”. Lo chiamavo Yogi, non Jopie come tutti. Non so perché. A Henk Groot dovevo dire “Henk, una partita molto molto buona”, e se non dicevo per due volte “molto”, quello non si muoveva dal lettino.» E poi ci sono i rituali: ogni volta che l’Ajax gioca una partita europea, Salo deve indossare un berretto da sci considerato portafortuna e andare a comprare l’osseworst, una particolare salsiccia, dal macellaio kosher di Beethovenstraat. Con Cruijff ha bisogno di pazienza supplementare: «Johan mi telefonava anche sette volte al giorno. “Il ginocchio ha qualcosa che non va”, “Johan, è tutto a posto”, “Sei sicuro?”, “Sono sicuro”. E dopo qualche ora ricominciava da capo. Alla fine gli dicevo “Non c’è niente che non va, sei a posto. Prendi un’aspirina e vai a dormire.” A quel punto Johan cominciava a dirmi “Grazie Salo, sei così gentile” e io sospirando gli rispondevo “Di niente, puoi chiamarmi quando vuoi”.»
Salo Muller oggi ha 81 anni, vive ad Amsterdam e continua a curare i traumi. Quelli sportivi, oggetto dei suoi interventi su Fisioscoop, la rivista di fisioterapia che lui stesso ha fondato, e delle lezioni video sul suo sito. E quelli dell’anima, cui ha cercato di dare parole con due libri (il racconto autobiografico di cui sopra e il romanzo De Foto) e raccontando la sua storia agli studenti. Per anni si è battuto affinché le ferrovie olandesi pagassero un risarcimento per aver reso materialmente possibili le deportazioni nel campo di Westerbork. Nel 2015 la compagnia ferroviaria nazionale si è scusata ufficialmente, ma si è rifiutata di pagare. Klaas Vellinga e Pietje Heddema-Bos, i suoi finti genitori per un anno e mezzo, dal 2008 fanno parte dei Giusti fra i Popoli dello Yad Vashem di Gerusalemme. Cruijff ha continuato a chiamarlo per tutta la vita. Il mondo dopo la fine del mondo gli deve il Grande Ajax.