Maggio 2008. Pep Guardiola conclude la sua prima stagione da allenatore vincendo il campionato spagnolo di Quarta Divisione alla guida del Barcellona B. In panchina c’è il suo vice Tito Vilanova, perché lui, squalificato, è confinato in tribuna. Aprile 2018. Pep Guardiola, alla sua seconda stagione in Inghilterra, vince la Premier League con il Manchester City. Anche stavolta, non può godersi la festa in panchina, perché la certezza del titolo arriva postuma, ironia della sorte grazie al Manchester United di José Mourinho, che si fa battere in casa dal West Bromwich. Una partita che Guardiola non sta neanche guardando. Che non ha mai pensato di guardare. Perché mentre diventa il primo allenatore spagnolo a vincere il titolo in Inghilterra, lui sta giocando a golf. E non è indifferenza ostentata e nemmeno superbia, è che la passione per il golf gliel’ha trasmessa Cruijff. Anche nei momenti ad alta densità di impegni, hanno sempre trovato il tempo di incontrarsi su qualche campo da golf, in genere nei dintorni di Barcellona. Una partita, quattro chiacchiere. Il calcio, ovviamente. Un certo modo di pensare il calcio. Quello che ha funzionato in Olanda e in Spagna, raramente in Italia, sorprendentemente in Germania, ma cui l’Inghilterra è sempre rimasta preclusa. Fino all’aprile 2018, vale a dire dieci anni dopo l’incunabolo Barcellona B e trent’anni dopo l’arrivo di Cruijff sulla panchina blaugrana.
Sembrava proprio che il calcio totale non avesse speranze di funzionare sull’Isola: filosoficamente molto distante dalla concezione del gioco come prova di coraggio così radicata nella mentalità britannica, per decenni tacciato di intellettualismo al di là della Manica. Un conto è riconoscere i meriti del Barcellona che nel 2011 non solo dà una lezione di calcio al Manchester United di sir Alex Ferguson, ma lo fa in una finale di Champions League, tutt’altro è immaginare che l’allenatore di quel Barcellona possa proporre quello stesso stile alla guida di una squadra inglese. In effetti, avevano ragione i critici: non si poteva trapiantare quel Barcellona sull’Isola. Probabilmente non lo si sarebbe potuto trapiantare neanche a Madrid, se è per questo. Ma Guardiola non ha mai neanche pensato di farlo. Il suo Manchester City campione d’Inghilterra condivide con il Barcellona soltanto una cosa, la più importante di tutte secondo Cruijff: la filosofia.
D’altra parte, lo stesso Johan sentiva di avere una specie di conto aperto con l’Isola. In un’intervista al Guardian di qualche anno fa, ammetteva che gli sarebbe piaciuto giocarci e viverci. A Londra ha vinto una Coppa dei Campioni da giocatore nel 1971 e una da allenatore nel 1992, ma solo molti anni dopo sarebbe riuscito a realizzare il desiderio di fare finalmente un giro sulla famosa metropolitana cittadina. Per il calcio inglese esprimeva grande rispetto e ammirazione, tanto più che proprio contro una inglese – il Liverpool di Bill Shankly – aveva giocato la sua partita preferita appena diciannovenne. Così ci ha pensato il suo allievo preferito a far vincere Cruijff non in Inghilterra, ma con l’Inghilterra.
Quando nell’estate del 2016 Guardiola ha firmato con il Manchester City, la montagna che aveva da scalare era altissima. Il City veniva da cinque anni di successi, è vero, ma come li aveva ottenuti? Con Roberto Mancini prima e Manuel Pellegrini poi – allenatori non esattamente sulla stessa lunghezza d’onda di Pep. Il che significa giocatori non abituati ai metodi di allenamento che Guardiola e il suo staff propongono. Praticamente si partiva da zero. Non era stato così al Bayern Monaco, dove il lascito di Van Gaal era forse più importante di quanto si pensi. Più in generale, in Germania Pep si inseriva in un campionato profondamente segnato da un lato dall’esperienza dirompente del Borussia Dortmund di Jürgen Klopp, dall’altro dalla lezione del duo Klinsmann-Löw, decisivo – come dimostra Axel Torres nel suo splendido Franz, Jürgen, Pep – nel preparare il terreno al calcio di Guardiola. L’Inghilterra, invece, da questo punto di vista era del tutto impreparata – e anche tendenzialmente ostile. Al City, però, la proprietà qatariota ha fatto le cose per bene. Ha cominciato riorganizzando il settore giovanile, con l’idea di mettere un’idea alla base della formazione dei giocatori. Solo in seguito ha ingaggiato Guardiola. Che nella sua prima stagione inglese ha fatto vedere cose belle e anche bellissime, ma in campionato ha sofferto, specialmente contro le squadre minori, poco inclini al gioco di costruzione, ma capaci di mettere in difficoltà il centrocampo del City nei duelli aerei.
L’atteggiamento di non tutta, ma molta dell’Inghilterra calcistica nei confronti del calcio che Guardiola propone si riassume probabilmente nella domanda che Pep si è sentito rivolgere in una conferenza stampa dell’inverno 2017: Il Manchester City vince pochi contrasti, come mai? Prima reazione di Guardiola dopo un attimo di sgomento, mettersi a ridere. «Io non alleno i contrasti». Vero. Lui allena quella capacità di muoversi che rende i contrasti superflui. Ma davvero l’Inghilterra era pronta per questo?
Se Guardiola fosse stato da solo, probabilmente no. Ma pochi mesi dopo il suo arrivo, a dargli man forte ecco Jürgen Klopp sulla panchina del Liverpool. È lui il suo vero
avversario in Inghilterra, non Mourinho, e nemmeno Antonio Conte. Klopp per certi versi si trova alle prese con un’operazione molto simile a quella di Pep: trapiantare il BVB a Anfield non è pensabile, bisogna prendere i fondamenti di quel calcio e da lì partire per dare un’identità al Liverpool. Le arditezze tattiche di Guardiola, per esempio il recupero reinterpretato di moduli rétro come il WM, non si sono viste contro le dirette concorrenti per il titolo e nemmeno in Champions League. Contro Chelsea e Napoli, contro il Tottenham di Mauricio Pochettino – a proposito, anche lui ha dato una mano a Pep – e soprattutto contro il Liverpool si è visto un calcio che certe volte sembrava vicino alla perfezione (contro il Napoli all’andata), altre volte di dieci anni in anticipo su tutto il resto (contro il Chelsea quest’anno e anche l’anno scorso).
Nelle analisi del successo apparse in Inghilterra, pesa l’eliminazione ai quarti di Champions League. Ma quello che sta succedendo a Manchester ha un respiro più ampio: la storiografia insegna che i cambiamenti nella mentalità hanno tempi medio-lunghi – riparliamone tra cinque o dieci anni. Adesso, meno di un decennio dopo il Barcellona di Guardiola, il numero di squadre che superano la media di 450 passaggi a partita si è più che triplicato in tutti e cinque i maggiori campionati europei.
Mai come ora Pep è stato un apripista. Uno che si è preso tutti i rischi del caso – ma in fondo il rischio più grande è non correre rischi, no? È stato fedele alle sue idee, paziente e creativo. Tutte cose da campo da golf.