Che giorno fosse di preciso, non lo ricorda nessuno. Una certa giornata del 1970, una come un’altra visto che non c’è calendario su cui sia segnata in rosso, l’Ajax all’improvviso fa un passo avanti. Letteralmente. Solo pochi mesi prima, l’umanità ha ne ha fatto uno gigantesco insieme a Neil Armstrong, la cui orma sul suolo lunare è ancora fresca. Magari è anche merito di quell’incredibile passeggiata se a un certo punto, senza istruzioni da Houston né diretta in mondovisione, Velibor Vasovic ha il coraggio di prendere sul serio il suo ruolo di libero. Un uomo solo alle spalle della linea difensiva, nello spazio solitario e indecifrabile dove da lunga tradizione gli allenatori schierano quelli che non sanno dove mettere perché sanno fare tutto e potrebbero giocare ovunque. Negli anni la prassi si è un po’ raffinata, ma per quel ruolo delicatissimo di regista e insieme guardiano si continuano a privilegiare giocatori il più possibile completi. Velibor Vasovic detto Vasco non fa eccezione: Rinus Michels, che ha preso la squadra a metà della stagione 1964/65, nel 1966 è andato a osservarlo personalmente quando giocava nel Partizan di Belgrado e aveva segnato l’unico gol della squadra jugoslava nella finale di Coppa Campioni persa contro il Real Madrid. Non voleva un giocatore come lui, voleva lui. Anche perché di giocatori come lui in Europa – per lo meno al di qua della cortina di ferro – non ce ne sono. Intelligente, elegante, tatticamente in possesso di quello che Wittgenstein chiamava “uno sguardo acuto”. Esattamente di quello sguardo ha bisogno Michels, se vuole correggere i difetti del suo Ajax, venuti drammaticamente in evidenza nella finale di Coppa Campioni del 1969, quando il ventiduenne Cruijff e compagni si sono schiantati contro la miscela catenaccio&contropiede del Milan di Nereo Rocco. L’acume tattico di Vasovic non solo riequilibra la squadra, ma permette all’Ajax un rivolgimento che lo ridefinisce nella sua totalità.
Succede, racconta il compagno Bobby Haarms a David Winner nel suo “Brilliant Orange”, che Johan Neeskens si mette a inseguire gli avversari fin nella loro metà campo, un pressing fino ad allora sconosciuto. Dapprima i difensori dell’Ajax restano dietro, ma a un certo punto, all’improvviso, cominciano a seguirlo. «Senza averlo studiato, cominciarono a praticare la trappola del fuorigioco. Vasco fece un passo avanti e di colpo eccolo lì. Una specie di miracolo». Michels, che l’effetto di quel passo avanti ce l’aveva in testa, ma non aveva ancora elaborato il mezzo per arrivarci, lo vede e sa: «Sì! È così che dobbiamo giocare», esclama. Un minuto prima la sua squadra stava giocando alla vecchia maniera, un minuto dopo la rivoluzione.
La trappola del fuorigioco, o offside-trap, era un espediente reso possibile dalla riforma della famosa Regola Numero Sei del codice di Cambridge, varata nel 1926: perché un giocatore della squadra in attacco fosse in gioco, bastava che tra lui e la porta ci fossero due avversari anziché tre. Pensata per favorire gli attaccanti, la nuova regola del fuorigioco aveva permesso il fiorire di ali e centravanti rapidi, bravi a inserirsi in profondità sfruttando i lanci lunghi. Nel ’26 nessuno poteva immaginare che il fuorigioco potesse favorire chi difende. Tanto più che a utilizzare con successo la “trappola” fra i primi sul Continente erano stati i berlinesi dell’Hertha, che già nel 1931 avevano messo fine al dominio dell’elegante Norimberga, la cui piramide male si adattava alla nuova verticalità introdotta in Inghilterra dal sistema con tre difensori di Herbert Chapman.
Quarant’anni dopo, la “trappola” viene ripensata, sempre in chiave offensiva, ma nella prospettiva di chi difende. Più che di un ripensamento, si tratta in effetti di un “cogliere di colpo”, visto che nel racconto di Haarms si sottolinea come il passo avanti di Vasovic non sia né meditato né comandato. Semplicemente accade. All’improvviso. Un’esperienza che ricorda molto quella che Platone nel Parmenide attribuisce alla filosofia: qui avviene un “rivolgimento” che non tocca questa o quella attitudine particolare, ma che coinvolge “l’anima intera”. Scrive Franco Chiereghin: “È il senso totale della vita che muta da un giorno tenebroso a un giorno vero e il mutamento non è un semplice passaggio, ma un vero e proprio rovesciamento dall’uno all’altro di due estremi incompatibili”. Che il passo avanti di Vasovic comporti un rivolgimento totale significa che un movimento fino ad allora pensato come imprudente, se non addirittura sbagliato – l’avanzamento della difesa – porta a un riorientamento di tutta la squadra. Lo spazio cambia perché cambia il modo di occuparlo. Se la squadra tutta sale verso la metà campo degli avversari, questi non solo dovranno difendersi da un pressing aggressivo e diffuso, ma si troverebbero in difficoltà anche qualora riuscissero a recuperare la palla, perché i loro attaccanti saranno o troppo lontani dalla porta per rendersi pericolosi o lasciati in fuorigioco. Perfezionata, quest’attitudine alla difesa altissima diventerà la cifra del calcio totale olandese: Michels la porterà con sé prima in Nazionale e poi nell’altrimenti poco gratificante esperienza al Colonia. L’effetto, per lo spettatore come per l’avversario, è quello di una tempesta: giocatori che come un’onda si avventano in blocco verso la metà campo avversaria – Arrigo Sacchi resta uno dei pochissimi in Italia a possedere questo tipo di sensibilità.
Torniamo per un attimo a Platone. Per indicare il carattere con cui si presenta il “rivolgimento dell’anima intera”, l’avverbio impiegato è exáiphnes, d’improvviso. Un termine cruciale per Platone, che lo utilizza in luoghi decisivi dei suoi scritti: d’improvviso il prigioniero nella caverna viene liberato, d’improvviso appare la bellezza in sé e per Sé nel Simposio, d’improvviso si accende nell’anima l’intuizione filosofica nella Lettera VII. Exáiphnes Vasovic fa un passo avanti, porta con sé il resto della difesa e l’Ajax non è più lo stesso, è stravolto. Forse allora non è una forzatura parlare di filosofia in relazione al calcio totale: non tanto perché esso sarebbe un contenuto filosofico – magari un sistema – quanto piuttosto per il suo essere soggetto a rivolgimento, per il modo improvviso con cui si riorienta mettendosi in discussione. E forse l’insistenza di Cruijff sull’importanza del guardare condivide una certa aria di famiglia con lo “sguardo acuto” che il Wittgenstein delle “Ricerche filosofiche” auspica per il filosofo. Affinché un giorno come un altro, basti un passo a cambiare tutto.