Come lui nessuno mai. Letteralmente. 603 presenze e 228 gol in diciassette stagioni con una e una sola maglia, al punto che ancora oggi Sjaak Swart e Ajax sono praticamente sinonimi. Né bandiera né leggenda, tantomeno icona: semplicemente Mister Ajax. A più di quarant’anni dalla sua ultima partita ufficiale nel 1973 ad Amsterdam lo riconoscono anche i ragazzini, perché – scrivevano già nel 1971 – “Sjakie is Ajax – Ajax is Sjakie”. Terzo braccio del tridente d’attacco del Grande Ajax, Swart è in realtà il primo: Piet Keizer è arrivato dopo, Johan Cruijff dopo ancora. Sjakie era lì da prima. Prima delle tre Coppe dei Campioni, prima dei contratti da professionista, prima della difesa altissima e della numerazione incongrua sulle maglie. Prima del Generale Michels. Swart era già l’Ajax quando il miglior allenatore del ventesimo secolo era ancora un giocatore – e paradossalmente l’opposto di un giocatore per Michels. “Era molto forte di testa e aveva un’ottima tecnica, ma in allenamento era un disastro. Non correva mai un metro in più”, ricordava Swart quando ormai l’ex compagno era diventato il suo allenatore. Swart ha fatto la storia, non solo quella dell’Ajax, ma anche quella del ruolo dell’ala destra, strappato alla sua solitudine e tirato dentro a quel dialogo ininterrotto che è il calcio totale. Il suo idolo era Garrincha, ammirava Stanley Matthews, ma è grazie a lui se abbiamo avuto Thierry Henry e il recente Raheem Sterling rivoluzionato dalla cura Guardiola, per non parlare di Hakim Zyech. Quei giocatori di fantasia estrema e tecnica sopraffina che gli schieramenti danno sulla fascia destra, ma che non aspettano di essere cercati dai compagni, piuttosto vanno a farsi cercare.
Quando debutta diciottenne con la maglia dell’Ajax il 16 settembre 1956, di Swart si sa che ha il miglior dribbling del settore giovanile e certi numeri da giocoliere che da soli valgono il prezzo del biglietto. Sulla panchina dell’Ajax siede l’austriaco Karl Humenberger, che negli anni Trenta era stato fra i protagonisti delle stagioni d’oro dell’Admira Vienna, prima di emigrare allo Strasburgo allenato dal grande Pepi Blum, già stella del Wunderteam. A Humenberger i numeri del ragazzo piacciono e nel 1957 lo fa esordire in Europa, anche se non si può dire che possano vederlo in molti: il 20 novembre 1957 l’Ajax campione d’Olanda, accompagnato da cinquanta tifosi, va a giocare i sedicesimi di finale di Coppa dei Campioni nella DDR, sul campo del Wismut Karl-Marx-Stadt, altrimenti nota come Chemnitz. L’Ajax passa 3-1 (verrà eliminato nei quarti dagli ungheresi del Vasas), ma il punto non è questo. Il punto è che nella città che porta il nome di Marx si apre un capitolo di storia che porterà all’abbattimento di una struttura: “Stasera a Rotterdam è finito il calcio difensivo”, sarà la prima cosa che dirà Cruijff dopo aver battuto l’Inter nella finale di Coppa dei Campioni del 1971. Ecco, Sjaak Swart c’è dall’inizio alla fine. Tra l’Otto-Grotewohl-Stadion e il De Kuip ci sono quattordici anni di Ajax in cui succede più o meno di tutto, da una sventata retrocessione ai cinque allenamenti al giorno di Rinus Michels. L’ex attaccante che non aveva voglia di fare un metro in più prende la squadra nel gennaio 1965, le assicura la salvezza e poi comincia a costruire. Per farlo non è tanto dai giovani Keizer e Cruijff che parte, quanto dall’inossidabile Sjaak Swart – a patto che si impegni, però.
Essenzialmente sono due i rimproveri che Michels muove alla sua ala destra: un eccesso di nervosità prima delle partite e la tendenza a non partecipare al gioco quando non ha la palla fra i piedi. Una volta, nella riunione tecnica prima del ritorno dei quarti di Coppa delle Fiere con il Carl-Zeiss-Jena nel marzo 1970, il Generale scrive sulla lavagna le iniziali J.S.1 e J.S.2. Le prime le posiziona proprio davanti alla panchina e stanno per “Jesaia Swart 1”, concentrato, pronto a reagire, sempre in movimento. Le altre le scrive dall’altra parte del campo e stanno per la seconda versione di Jesaia Swart, quella che non torna indietro, che non ascolta le urla dell’allenatore e si prende delle pause dal gioco. Come a dire, vediamo se fai la differenza anche quando non sto lì a pungolarti. La provocazione funziona, perché Swart segna un gol per fascia: un colpo di testa su azione d’angolo quando gioca sul lato panchina, un gran tiro di destro quando passa sul lato opposto. “Il punto più alto della mia carriera”, definisce Swart la partita con il Carl-Zeiss. In realtà forse la partita della vita l’aveva giocata nel 1966 contro il Liverpool, nella notte di nebbia che aveva aperto gli occhi al Grande Ajax. Lì davvero aveva scavato un solco sulla fascia destra per quante volte l’aveva percorsa su e giù senza che gli inglesi fossero mai riusciti a prenderlo.
Sjaak Swart è il primo di quelli che oggi chiamiamo esterni d’attacco, molto prima che Arrigo Sacchi cominciasse a predicare la necessità di tornare indietro e dare una mano alla squadra anche per il più incallito dei dribblomani. Eppure conservava qualche tratto rétro, come quando si ostinava a passare i pomeriggi dietro al bancone del suo negozio di sigari sulla Pontanusstraat, nella parte orientale di Amsterdam. La vena per il commercio gli veniva dal padre Louis, ebreo, che durante l’occupazione era riuscito a sfuggire alle deportazioni che gli avrebbero portato via i fratelli e una sorella lasciandosi sterilizzare. Di queste cose Sjaak non ha mai voluto parlare pubblicamente. Per parlare di sé, ha sempre parlato dell’Ajax.
Perché Swart c’era prima, ma anche dopo. Socio onorario del club, non ha mai smesso di seguire da vicino la squadra, e non scrivendo commenti per i giornali. Nel 2010 è stato uno dei primi a schierarsi con Cruijff nella sua crociata contro il consiglio direttivo, ma non si è allontanato neanche quando in società è tornato Van Gaal. Oggi che ha 81 anni, Swart continua a vivere quotidianamente l’Ajax. Per i giocatori è una presenza familiare al centro di allenamento e sanno di poterglisi rivolgere senza paura, ché lui è lì per loro. Distribuisce consigli, ascolta. Il suo più recente pupillo è Donny van de Beek, della cui crescita nel corso della stagione è stato un testimone d’eccezione: “Siamo così orgogliosi di te, Donny”, gli ha scritto la sera in cui l’Ajax festeggiava il suo trentaquattresimo titolo in Eredivisie davanti a centomila persone a Museumplein. Al plurale, sì, come se a parlare fosse tutto l’Ajax. D’altra parte, la maglia numero 8 Swart non se l’è mai tolta: titolare inamovibile del Lucky Ajax, la formazione “vecchie glorie”, continua a scendere in campo ogni volta che può. Superata la solitudine dell’ala destra, il calcio è una festa mobile.