Era difficile da avvicinare, pericoloso da frequentare e si poteva dare per certo che una volta finita – perché sarebbe finita – avrebbe fatto dannatamente male. Leo Beenhakker tutte queste cose le sapeva benissimo, eppure nessuna servì a fermarlo quando per la prima volta vide giocare Zlatan Ibrahimovic e decise che doveva essere suo. Sapeva tutto: che il ragazzo aveva un pessimo carattere, che non guardava in faccia nessuno e anche che non passava la palla a nessuno, difetto ben peggiore se si voleva farlo giocare nell’Ajax. Il collettivo prima di tutto, come no. Zlatan che si era da poco guadagnato l’odio di mezza Svezia per essersi attirato addosso l’intera difesa del Djurgården al limite dell’area e quando erano rimasti tutti lì in fila davanti a lui, solo allora li aveva fatti cadere come birilli decidendo all’ultimo di cambiare piede per tirare in porta. Zlatan che tutto questo l’aveva fatto solo per vendicarsi di un fallo cattivo rimediato contro di loro nella stagione precedente. Leo Beenhakker lo sa che per l’Ajax difficilmente potrebbe esserci un giocatore meno adatto di questo, ma semplicemente non gliene importa niente. «È come quando vedi una bella ragazza e lo sai che è quella sbagliata, ma che devi fare, tu la vuoi lo stesso perché sei innamorato». Per la storia di Ibra e dell’Ajax basterebbero le parole di Beenhakker, che così la riassume in una scena di Diventare leggenda, il film che racconta gli inizi della carriera dell’attaccante svedese. Carriera che proprio ad Amsterdam conosce un momento fondamentale, che coincide simbolicamente con il cambio del nome sulla maglia numero nove: da Zlatan a Ibrahimovic, dal nome proprio al nome della stirpe, dall’io-e-basta all’io-e-il-mondo.
Comincia tutto con una telefonata nell’inverno del 2001. Beenhakker viene a sapere da un suo contatto spagnolo che nel Malmö in ritiro dalle parti di Alicante c’è un giovane attaccante che si merita un viaggio dall’Olanda per essere visto. L’allora direttore tecnico dell’Ajax si fida sulla parola e va a dare un’occhiata. «Jesus Christ, I’ve got to have him!», pare sia stata la sua reazione alla vista di questo ragazzone che con il pallone fa quello che vuole. Letteralmente: quando ha la palla, Zlatan – questo è il nome con cui in Svezia è già diventato una star – è capace di inventare numeri da giocoliere teoricamente impensabili per uno con il suo fisico, numeri che fanno uscire dai gangheri gli avversari e ogni tanto pure qualche compagno, che magari vorrebbe anche solo essere preso in considerazione. “Io sono Zlatan, e voi chi siete?” non è ancora una massima ispiratrice per aspiranti calciatori (o giustificatrice per piccoli teppisti, a seconda dei casi), ma esprime bene il suo atteggiamento. Leo Beenhakker tutto questo lo sa. Si è fatto dire tutto di Zlatan prima di decidersi a parlargli di persona, chiedendosi se in mezzo a tante sbruffonate avrà il coraggio di guardarlo in faccia. Quando finalmente si incontrano, Ibra lo guarda dritto negli occhi. Per Beenhakker non serve altro. «Avevo avuto a che fare con Schuster e Hugo Sanchez, volevate che mi spaventassi di Ibrahimovic?»
Chi per poco non si fa venire un colpo è la direzione finanziaria dell’Ajax, che giudica folle la richiesta di un assegno in bianco per prendere un diciannovenne svedese. Dopo lunghe e pazienti trattative, Beenhakker riesce a convincere i suoi dirigenti che non è il caso di aspettare – sul giocatore ci sono i club di mezza Europa, con Roma e Arsenal in testa – e a pagare al Malmö la cifra più alta mai spesa dall’Ajax per un giocatore. Nove milioni di euro per un attaccante che nessuno ad Amsterdam ha visto giocare in una partita, perché finora gli allenamenti spagnoli sono l’unica cosa di cui si abbia testimonianza diretta. D’altra parte, se a Beenhakker basta, ci sarà un motivo. È lo stesso direttore tecnico a chiarire il concetto a Zlatan nel giorno della sua presentazione all’Ajax: «Qui sono io che ci sto mettendo la faccia per te. If you fuck me, I’ll fuck you». Manco a dirlo, i due si capiscono al volo. Pochi minuti dopo questa gradevole conversazione, nel tutto esaurito della sala stampa dell’Arena, l’Ajax presenta il giocatore più costoso della sua storia. E forse per giustificare la cifra record, gli consegna la maglia numero nove, che non è solo il conto dei milioni che ci sono voluti per portarlo qui, ma soprattutto l’eredità di Van Basten. Qualche palleggio per i fotografi, poi è già ora di allenarsi.
Alla guida dell’Ajax c’è Co Adriaanse, carattere spigoloso e modi piuttosto bruschi, che ha già il suo da fare con il figliol prodigo Richard Witscghe, che è tornato al club dopo dieci anni, ma non ha ancora imparato a tenere chiusa quella bocca. Almeno su questo, con Zlatan si può stare tranquilli: non parla olandese, è diffidente ai limiti della paranoia e fondamentalmente il mondo non gli sta simpatico. Va a vivere in un piccolo appartamento appena fuori città e lì passa la maggior parte del tempo in cui non è impegnato con l’Ajax. Da solo. Il problema è che questa tendenza all’isolamento se la porta dietro anche in campo: capire cosa vuole Andriaanse è complicato, e non certo per la lingua. Tutto questo insistere sul collettivo, sull’aiutare la squadra e su quanto sia importante tornare indietro in fase di non possesso alle orecchie di Zlatan suona come qualcosa che non niente a che fare con il calcio. L’esordio – sette minuti contro il Roda – non è proprio il massimo, in compenso una settimana dopo si rifà segnando il gol che sblocca la super sfida contro il Feyenoord al De Kuip, quattro minuti dopo aver fatto il suo ingresso in campo al posto del greco Machlas, in quel momento idolo dei tifosi. Un gol e un assist contro il Twente, poi un lungo blackout, in cui lui e la squadra sembrano viaggiare su binari differenti (quando non del tutto opposti). Il primo ad accorgersene è il pubblico dell’Arena, che allo stadio ci va in primo luogo per controllare che i giocatori onorino la maglia dell’Ajax giocando bene, a seguire la stampa, che comincia ad attaccare prima lui e poi chi l’ha portato ad Amsterdam, infine Zlatan stesso, che per la prima volta va a sbattere contro la dura verità: per giocare a calcio, non può fare quello che vuole con il pallone.
Fortuna che a novembre Co Adriaanse viene esonerato e al suo posto arriva Ronald Koeman. Il guaio è che insieme a lui c’è anche un nuovo direttore tecnico, Louis van Gaal. «Un dittatore», lo definirà Ibra anni più tardi. Di certo uno che non è disposto a transigere sui principi che lui stesso ha portato agli estremi quando era alla guida dello squadrone dominatore in Europa nei primi anni Novanta. Zlatan, però, sembra trovare molto più interessanti i consigli di Marco van Basten, che comincia ad affacciarsi spesso agli allenamenti della squadra e si ferma volentieri a parlare con l’erede della sua maglia. «Be’, tutto qui quello che sai fare?», lo sfida. Fra i due si stabilisce un contatto: «Lascia perdere la teoria – gli dice Van Basten – Tu pensa a fare gol, è quello l’importante». Zlatan lo prende in parola e alla prima partita che Koeman gli fa giocare dopo quasi tre mesi fra panchina e tribuna, segna una doppietta.
I numeri diranno che per lui la prima stagione all’Ajax è stata nel complesso una delusione, se rapportata all’investimento fatto per portarlo in Olanda, con appena 6 gol in 24 partite. Eppure da tutti quei giorni di pioggia e ostinata solitudine esce con una diversa consapevolezza di sé, tant’è che in estate chiede alla società di poter cambiare il suo nome sulla maglia: sopra il numero nove non vuole più Zlatan, ma Ibrahimovic. Come se capisse di non poter essere da solo per essere se stesso – che in fondo è un po’ la libertà secondo il calcio totale e allora non poteva esserci un altro posto per impararla. Non è un caso che da questo momento in poi il suo rendimento all’Ajax cominci a migliorare di partita in partita, tanto da permettergli in pochi mesi di soffiare la maglia da titolare all’egiziano Mido e poi di diventare l’oggetto del desiderio dei club migliori d’Europa.
Il carattere, quello resterà sempre pessimo, «ma se non fosse così, non sarei innamorato di lui», dice ancora Leo Beenhakker, che lo sapeva fin dall’inizio che quella era la ragazza sbagliata e che avrebbe fatto male vederlo andare via. Era arrivato Zlatan, se ne va Ibrahimovic. Adesso è talmente bravo a risolvere i problemi al resto della squadra, che per lui le difficoltà arriveranno quando qualcuno gli dirà che non è necessario che lo faccia. «Bravissimo ad aiutare la squadra, molto meno a farsi aiutare», nella felice descrizione di Arrigo Sacchi. È per questo che con Guardiola non si sono mai capiti: anche per il Barcellona era la ragazza sbagliata, e Pep lo sapeva. Solo che non era innamorato come Leo.