«…e comunque al ritorno gliene faremo 7». Così parlava un nervosissimo Bill Shankly, ansioso di lasciare Amsterdam in una notte di nebbia e porte sbattute. Riassunto delle puntate precedenti: nell’andata del secondo turno di Coppa dei Campioni, il Liverpool rimedia un clamoroso 1-5 sul campo dell’Ajax. È il 7 dicembre 1966, giornata di scoperte: l’Europa scopre che ad Amsterdam sta succedendo qualcosa (e non è il movimento dei Provos), l’Inghilterra che non basta fare i duri per vincere e Rinus Michels che la sua squadra ha fatto il salto che aspettava. Forse. Perché strapazzare il Liverpool dentro la nebbia dello Stadio Olimpico potrebbe essere stata la grazia di una notte, ma per poter credere di aver fatto davvero un passo al di là, l’Ajax ha bisogno di confermarsi nella partita di ritorno, che si gioca una settimana più tardi nello stadio che è già una leggenda. È il 14 dicembre 1966, una buona giornata per diventare grandi.
Per arrivare in cima alla collina di Anfield, zona nord-orientale di Liverpool, oltre ai resti abbandonati dell’architettura vittoriana, l’Ajax ha dovuto lasciarsi alle spalle tante cose, dai ruderi tattici del WM – poco più di una meteora in Olanda – fino al complesso di inferiorità nei confronti degli inglesi, guardati da sempre come il modello inarrivabile, al punto che c’è qualcosa di sacrilego nell’idea di batterli. Forse. O forse no. In realità gli inglesi sono più che battibili ormai da anni a livello di nazionale, ma le squadre di club tengono ancora botta, se non altro perché passare nei loro stadi è effettivamente impresa per pochi: a Anfield, per esempio, il Liverpool non ha mai conosciuto sconfitta in Europa. Per questo nella settimana che va dal 7 al 14 dicembre, tanto sui giornali quanto nei corridoi del De Meer nessuno vuole sentir parlare di passaggio del turno ormai in tasca. Il Liverpool, che in effetti non si aspettava di trovare un Ajax tanto forte, nonostante Shankly avesse osservato gli avversari con molta più attenzione di quanto fosse disposto ad ammettere, ha bisogno di vincere con 4 gol di scarto per ribaltare il risultato e qualificarsi ai quarti di finale. Il bello è che in città tutti sono convinti che ce la farà, e anche senza troppi problemi, perché d’accordo, lo scivolone di Amsterdam è stato imbarazzante, ma la dura legge di Anfield è uguale per tutti e questi olandesi lo capiranno da subito. «L’Ajax ha avuto fortuna – dichiara Shankly alla vigilia della partita – Ma quel loro portiere, Bals, da noi non giocherebbe nemmeno fra i dilettanti. Il loro fisioterapista farebbe bene a prepararsi, li aspetta una notte bollente».
Ad Amsterdam la prendono per quella che è: pretattica. «Sembrava che la nostra vittoria fosse un’anomalia – ha raccontato anni dopo il difensore Toni Pronk – Ma questa cosa servì a motivarci ancora di più». Rinus Michels sa cosa lo aspetta in cima alla collina. È cresciuto fra gli allenatori inglesi e ha sempre guardato con ammirazione dall’altra parte della Manica, ma il 7 dicembre gli ha dato la consapevolezza che è arrivato il momento inevitabile del parricidio. La partita di Amsterdam gli ha detto che tutto quello che da un anno e mezzo cerca di insegnare al suo Ajax – di fatto, il possession game a velocità raddoppiata e quello che oggi chiameremmo pressing a tutto campo – funziona anche quando il livello si alza. Questa è la legittimazione che gli serve. Per averla, bisogna che l’Ajax torni vivo dalla collina di Anfield.
Solo che Shankly ha ragione, lassù la notte è bollente. Stadio esaurito, nella Kop c’è talmente tanta gente che a fine serata si conteranno qualcosa come 250 feriti da schiacciamento. Per farli abituare al ruggito della folla, Michels manda in campo i suoi per il riscaldamento con un quarto d’ora d’anticipo. Li lascia lì, soli davanti a tutta quella gente che si sgola cantando You’ll never walk alone – portata allo stadio dalla Kop meno di due anni prima – finché i brividi non diventano adrenalina. «Avevamo paura – ammette Barry Hulshoff, citato da David Winner in Brilliant Orange – Avevamo vinto 5-1 l’andata, ma avevamo lo stesso paura: per la folla e perché non avevamo mai fatto un risultato come quello contro una inglese prima di allora. Ma tatticamente eravamo forti, specialmente in difesa». Anche grazie allo stesso Hulshoff, che con i suoi 19 anni è il più giovane in campo insieme a Cruijff. Per lui Michels non ha ancora rivoluzionato il ruolo dello sweeper (il difensore arretrato inventato da Karl Rappan), e stasera giocherà a destra della linea a quattro al posto di Wim Suurbier, toccato durissimo nella partita d’andata e costretto a guardare. In compenso in attacco a sinistra torna Piet Keizer, che ha smaltito l’influenza che il 7 dicembre aveva regalato una notte da eroe a Cees de Wolf. È lui quello che gli inglesi si aspettano di meno, perché i suoi movimenti non sono quelli di un’ala classica: quando si ferma all’improvviso, gli avversari devono arrestarsi di colpo per riprenderlo, ma intanto i compagni continuano a correre sfuggendo a tutte le marcature.
Quando si comincia a giocare, la tempesta dura venti minuti. Il Liverpool colpisce una traversa con Smith al primo assalto e sfiora il gol con un gran colpo di testa di Strong. Poi basta, perché l’Ajax difende con criterio e in un attimo riparte, come al 4’ della ripresa, quando un’apertura dalla trequarti trova il solito, infinito, Sjaak Swart pronto al cross dalla destra e lì in mezzo all’area piccola è già arrivato Cruijff, che quando la palla gli arriva – toccata appena da Nuninga – deve solo piazzarla sotto la traversa. “That must be the end of the Liverpool’s hopes”, dice il telecronista dell’ESPN, eppure nemmeno così Anfield può credere che i giochi siano chiusi, tanto più che cinque minuti dopo Hunt pareggia e il cronometro dice che ci sarebbe tutto il tempo per un’impresa. Ma non stasera, non con questo Ajax che è davvero diventato grande e che torna in vantaggio una seconda volta quando un contropiede sembra lanciare Keizer verso l’area avversaria e il manuale del calcio inglese direbbe che dovrebbe andare dritto in porta, ma invece lui si pianta all’improvviso all’altezza del vertice sinistro dell’area e gli avversari che lo avevano rincorso perdono il tempo, nel frattempo alle loro spalle arriva a perdifiato Cruijff, che si lancia in scivolata sul pallone calciato da Keizer e lo butta dentro. Il tutto è talmente fulmineo che quando si alza, Johan deve tornare verso il centrocampo per farsi festeggiare e nel tragitto fra la porta del Liverpool e le braccia di Swart ha il tempo per fare un salto, poi un altro e poi un terzo, i lineamenti da ragazzino che resistono a un’energia contagiosa.
Non sarà il 2-2 di Hunt a cambiare le sorti di questa notte: il Liverpool potrà anche mantenere l’imbattibilità casalinga, ma questo è l’Ajax e da stasera Michels ha la certezza che il suo lavoro ora sarà aiutarlo a diventare ciò che è. “Che lezione per qualunque squadra – scrive l’indomani Horace Yates sul Liverpool Echo – Non solo si muovono in modo incisivo, prendono posizione perfettamente, ma la loro finalizzazione è così impressionante, che è un evento vederli mancare un gol. Credetemi, il Liverpool sarà grato di non dover incontrare squadre come l’Ajax tutte le settimane”. E conclude: “A team to be proud of, are Ajax”.
Opinione forse condivisa da Bill Shankly, che dopo la partita va nello spogliatoio olandese per stringere la mano e congratularsi personalmente con tutti i giocatori: «The war is over. You won…» E dalla collina di Anfield scende il calcio totale.