«¡No te compliques, Michael!» Laudrup fra illusione e ispirazione

Sembrava tutto così maledettamente semplice, con Michael Laudrup, che perfino un ragazzino si sarebbe accorto di una lieve stonatura. Ecco, magari non tutti i ragazzini gliel’avrebbero fatto notare. Ma il ventenne che nella primavera del 1991, nel corso di una di quelle partitelle sacre al Barcellona di Cruijff, si permette di apostrofarlo davanti a tutti quando lo vede indugiare in mezzo a tre avversari in una zona del campo troppo pericolosa, non è mica un ragazzino qualunque. «¡No te compliques, Michael!», urla un giovanissimo Pep Guardiola alla stella più splendente della squadra, nonché pupillo dell’allenatore. Laudrup la stella, che ha 26 anni e un curriculum che farebbe impallidire chiunque, non riesce a credere che un imperativo del genere gli sia arrivato non da Cruijff né dal suo secondo Rexach, bensì da un giocatore che è letteralmente l’ultimo arrivato, visto che è stato aggregato alla prima squadra solo da pochi mesi. «Se non lo si complica, è facile», ribatte indispettito guardando Guardiola dritto negli occhi. Chi si crede di essere per usare quel tono con lui? E cosa ancora più grave, come si permette di avere ragione? Perché a prescindere dal doppio punto esclamativo, il richiamo del giovane Pep è corretto: Laudrup stava effettivamente complicandosi la vita rischiando di perdere il pallone in una zona del campo in cui poteva avere conseguenze pericolosissime.

Si sarebbe ricordato bene di quella giornata, Guardiola, quando, quasi vent’anni più tardi, avrebbe cercato di evitare che Leo Messi commettesse lo stesso errore, mentre insegnava all’argentino a giocare come Michael Laudrup: mettendosi al posto del centravanti, ma solo per lasciare quel posto vuoto. «A magic illusion», definiva Cruijff il modo di giocare di quel danese che aveva studiato da olandese – con Sepp Piontek, il ct della spettacolare Danimarca degli Europei 1984 – e che nella fluidità di movimenti richiesta da quel tipo di calcio aveva trovato pane per il suo immenso talento. Johan lo

(L-R) Ronald Koeman, coach Johan Cruijff and Michael Laudrup of Barcelona prior to the friendly match against SVV on August 3, 1989 at Schiedam, The Netherlands. (Photo by VI Images via Getty Images)

aveva voluto con sé al Barcellona nell’estate del 1990 per sostituire l’inglese Gary Lineker, che non vedeva l’ora di scappare dopo una stagione passata ai margini in senso letterale, dal momento che l’allenatore pretendeva da lui che giocasse esterno nel tridente, anziché nel mezzo come d’abitudine. Il fatto è che Cruijff ormai da qualche anno andava sviluppando questa idea di scompaginare i ruoli tradizionali dell’attacco per poter confondere sistemi difensivi sempre più aggressivi. In fondo, lui stesso a Barcellona aveva giocato con il 9 sulle spalle pur avendo molto poco del centravanti classico, a parte il senso del gol – se nel 1973 Michels fosse riuscito a prendere al suo posto Gerd Müller, come aveva in mente, forse il calcio europeo avrebbe preso una strada diversa. L’idea era era esattamente quella di creare un’illusione: mettere un giocatore al posto del centravanti, quindi al centro del fronte d’attacco, da dove in teoria è più facile segnare gol, ma solo perché quel posto resti vuoto. Anziché restare sempre in profondità, questo non-centravanti avrebbe dovuto giocare molto più arretrato, al limite anche fino al cerchio di centrocampo, perché è lì che la sua presenza sarebbe davvero stata un problema per gli avversari. Se i difensori lo avessero seguito così indietro, avrebbero lasciato sguarnita la retroguardia, ma se fosse andato a prenderlo un centrocampista, avrebbe automaticamente perso di vista il suo dirimpettaio e concesso una pericolosa superiorità numerica in mezzo al campo.

Ci voleva cervello per fare tutto questo, e Michael Laudrup ne aveva uno particolarmente brillante, anche se magari gli anni passati in Italia con Trapattoni gli avevano un po’ atrofizzato il pensiero offensivo. Cruijff, che all’Ajax aveva sperimentato la magia con Van Basten durante la sua prima esperienza da allenatore, non ci mette molto a fargli capire quello che vuole da lui. L’esperimento va così bene, che già sul finire della stagione 1990-91 può permettersi di mettere in campo tutti insieme Laudrup, il bulgaro Stoichkov e i due spagnoli Salinas e Bakero. Dei quattro, nessuno è un vero e proprio centravanti, ma tutti – Laudrup un po’ di più – sono attaccanti mobili e intelligenti, capaci di leggere lo spazio e trovarsi reciprocamente. Solo una cosa Johan rimproverava al suo numero nove: la mancanza di un certo «istinto del ghetto», come diceva lo stesso Cruijff, quello che gli avrebbe permesso «di essere riconosciuto come il più grande genio di sempre, se solo il pallone fosse stata la sua unica possibilità di sfuggire alla povertà». Invece Michael era nato a Frederiksberg, enclave verde e alto-borghese di Copenaghen, la cui altra cittadina illustre è Regine Olsen, ispiratrice della Cordelia del Diario del seduttore di Kierkegaard. I Laudrup sono una famiglia di calciatori: il padre Finn aveva giocato in nazionale dal 1967 al ’79 e ai tempi del Brøndby era solito portarsi al campo di allenamento sia Michael sia il fratellino Brian (che avrebbe fatto una super carriera, con tanto di storico titolo europeo nel 1992 con la Danimarca). L’idillio con Cruijff finisce nel 1994, quando al Barcellona arriva il futuro campione del mondo Romario e il limite dei tre stranieri costringe il tecnico a fare delle scelte in attacco che sempre più spesso penalizzano Laudrup. Romario – che è molto più centravanti di lui – gioca anche la partita più importante della stagione, la finale di Champions League contro il Milan di Capello, in cu il Barcellona favorito incassa un pesantissimo 0-4.

Michael lascia senza rancore pochi mesi dopo e va a mettere la sua esperienza al servizio del Real Madrid, con il quale vince il suo quinto campionato consecutivo (è tuttora l’unico giocatore ad aver infilato la cinquina in Spagna con due squadre diverse). E forse ancora in omaggio al suo maestro olandese – «Laudrup era forse la cosa più vicina a Cruijff che il mondo abbia conosciuto», scrive Jonathan Wilson in Inverting the pyramid – va a chiudere la carriera all’Ajax (con Van Gaal, ovviamente), vincendo un ultimo titolo prima di ritirarsi e passare alla panchina. Anche qui, il meglio arriva in Spagna: salvezza e finale di Coppa del Re con il Getafe nel 2008, salvezza e due onorevoli pareggi contro il Barça con il Mallorca nel 2010.

Il Barça di Guardiola, l’ex ragazzino che osservava ogni suo movimento prendendo appunti mentali. «Molto di quello che so, lo devo a lui» dirà anni più tardi, in quella che a molti sembra solo un’altra delle sue esagerazioni. Ma in un certo senso è vero: senza l’esempio di Laudrup, probabilmente Pep non si sarebbe mai deciso a pronunciare l’apparente bestemmia di togliere Messi dalla fascia per mandarlo al centro dell’attacco al posto di Eto’o. Buffo che invece sia proprio Laudrup a confessare di ispirarsi a Guardiola nel modo di pensare il calcio quando approda in Premier League per succedere a Brendan Rodgers sulla panchina dello Swansea. I Cigni vengono da una stagione da sogno alla guida del futuro allenatore del Liverpool, che andandosene si è portato dietro anche il gioiello della squadra, il centrocampista Joe Allen. Come se non bastasse, Laudrup si ritrova a dover dirigere gli allenamenti in un parco pubblico, visto che il centro sportivo del club è in costruzione e in quello cittadino il rugby ha la precedenza.

Quello che Laudrup vuole portare in Inghilterra è «un piano di gioco basato sulle prime pagine del libro del calcio», come spiega in un’intervista al Guardian. «Nel calcio si tratta di evitare gli errori e poi di qualità e immaginazione». Di qualità in squadra non ne ha molta, ma siccome nessuno si aspetta risultati e trofei, lui può lavorare con calma sul 10-Michael-Laudrupgioco. Ai suoi giocatori fa vedere una serie di video del Barcellona di Guardiola, ma non insegnare loro la fase offensiva: «Tutti pensano che non abbia senso parlare di difesa in quel calcio. Ma ha senso eccome. Pensare a come difendere vuol dire pensare a come posizionarsi». Insegna a moltiplicare le linee per poter moltiplicare le possibilità di passaggio e quindi di confusione per gli avversari, proprio come aveva imparato lui in quelle partitelle a Barcellona. Un lavoro paziente che alla fine paga: dopo aver eliminato il Liverpool dell’ex Rodgers nel terzo turno, il cammino in League Cup vede cadere il Chelsea a Stamford Bridge prima del 5-0 al Brentford nella finale di Wembley, che mette la coppa nella bacheca dei gallesi. Eppure non è per questo che allo Swansea si ricordano di lui, anche oggi che dal suo esonero improvviso sono passati anni: mai s’era vista la squadra giocare come ha fatto con lui. Se non lo complichi, è facile, no?

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