L’essenziale sfuggirà a molti. Perché nell’Ajax che torna a giocare una finale europea ventun anni dopo quella di Roma, la cosa importante è che vincerla non è importante – e precisamente questo dimostra che ad Amsterdam si lavora bene. Non il valore di mercato di una squadra diventata improvvisamente di moda e nemmeno l’eventuale trofeo in bacheca, che sarebbe anche il primo del Terzo Millennio. Il 24 maggio a Stoccolma si può vincere o perdere – una partita secca contro una squadra di Mourinho è come finire nelle sabbie mobili – ma l’essenziale sarà lo stesso in entrambi i casi: l’Ajax non è un caso. Tantomeno una favola. Il finale di una partita non sarà anche il finale della sua partita. L’Ajax è piuttosto un senso, una direzione. Proprio il recupero di questo senso attraverso un processo, articolato e dunque ricostruibile all’indietro, è la ragione di quella che tutti si sono affrettati a chiamare rinascita, qualcuno miracolo, qualcun altro sorpresa. La verità è che questo Ajax è tutto tranne che una sorpresa. All’Ajax questo Ajax se lo aspettavano. Quello che non sapevano è quanto avrebbero dovuto aspettare per vederlo.
Si trattava di riannodare dei fili. Tutte le volte che l’Ajax ha avuto successo, non è mai stato un caso. Non lo era ai tempi di Jack Reynolds, meno che mai negli anni di Rinus Michels. La verità dell’albo d’oro raramente coincide con quella del calcio: le tre Coppe dei Campioni 1971-73 sono figlie di sette stagioni di studio matto e disperatissimo dal 1964 in poi, agli ordini di un allenatore ossessionato dalla disciplina, ma anche bravissimo a imparare dai suoi errori e a considerare le partite come altrettante lezioni. Il grande Ajax ha dovuto accettare di vedersi sbattere fuori dalla Coppa dei Campioni nel 1967 appena dopo aver giocato quelle che molti dei protagonisti (Cruijff incluso) ritengono le partite migliori della loro vita, la doppia sfida contro la corazzata Liverpool (il 5-1 della Partita della nebbia e il 2-2 di Anfield una settimana dopo). Ha dovuto incassare 4 schiaffi dal Milan di Nereo Rocco nel 1969 e il pugno nello stomaco dei rivali del Feyernoord campioni d’Europa nel 1970. Ma la direzione era chiara ed era giusto seguirla fino in fondo, correggendo in corso d’opera quello che si dimostrava non più efficace – è così che il 4-3-3 mette le radici ad Amsterdam, perché la sconfitta con il Milan convince Michels che il 4-2-4 ha fatto il suo tempo.
Dall’1-0 sulla Juventus firmato Johnny Rep nel 1973 dovranno passare quattordici anni per rivedere l’Ajax in una finale europea, ma anche stavolta sarà tutt’altro che un miracolo. Nel 1985 Cruijff entra nello staff tecnico, ma visto che non ha ancora la licenza da allenatore ed è quindi libero dall’incombenza di preparare le partite, può dedicarsi a un lavoro di più ampio respiro. Mette il naso più o meno dappertutto, dalla preparazione dei portieri al settore giovanile, dove per prima cosa va a dire a Jany van der Veen che può scordarsi di andare in pensione. L’uomo che l’ha prima scoperto per la strada e poi formato nelle giovanili è forse la persona che più di tutti negli anni ha tenuto alto il cartello che indicava la direzione da seguire. Cura del settore giovanile – insegna il maestro Jany – significa in primo luogo trasmettere una formazione calcistica, che a sua volta non può che partire dai fondamentali. Tecnica, dunque, anche per gli allievi naturalmente più dotati (Cruijff raccontava di interi pomeriggi passati a esercitare il controllo di palla prima con un piede e poi con l’altro). Un lavoro quotidiano che richiede pazienza in chi lo insegna e in chi apprende, perché sarebbe molto più facile buttarsi sulle partitelle e lasciare che la gioventù e l’entusiasmo facciano il resto. Così, dopo aver formato la generazione del grande Ajax, Van der Veen insegna anche a una seconda ondata di grandissimi giocatori (da Van Basten a Rijkaard per arrivare fino a Danny Blind e ai fratelli De Boer), protagonista prima della Coppa delle Coppe con Cruijff in panchina e poi degli anni d’oro di Louis van Gaal. Il quale a sua volta era stato allievo di Van der Veen, e infatti il suo Ajax mica per caso diventa quel terrificante meccanismo che suscita un misto di ammirazione e terrore.
La sentenza Bosman che nel 1995 equipara i calciatori a qualsiasi altra categoria di lavoratori e dunque sbriciola il dispotismo contrattuale dei club non è l’uragano di cui qualcuno parla (l’Ajax sarà fra le prime 4 d’Europa ancora nel 1997 e nel ’98), ma farà sentire i suoi effetti sul piano della gestione societaria, che per quasi un decennio sarà orientata più agli affari che al campo. Amsterdam diventa una specie di tappa intermedia verso realtà economicamente più forti: Chivu, Ibrahimovic e più recentemente Eriksen sono i nomi più celebri fra quelli che i tifosi hanno visto arrivare, faticare, diventare grandi e poi andare via. Almeno finché Cruijff non ha deciso che era il momento di alzare qualcos’altro oltre alla voce e ha invitato i giocatori a riprendersi l’Ajax e l’Ajax a rimettere il calcio al centro delle sue scelte. La Rivoluzione di velluto che fra 2010 e 2011 ha stravolto il consiglio direttivo affidando i ruoli decisionali a ex giocatori ideologicamente legati a Cruijff non è stata un’operazione di facciata: spenti i microfoni al termine della battaglia legale seguita alla nomina a direttore generale di Van Gaal, dichiarata irregolare dal tribunale olandese, all’Ajax si è continuato a lavorare avendo bene in mente la direzione da seguire.
A cominciare da Wim Jonk, forse l’artefice numero uno dell’Ajax di oggi: nominato responsabile del settore giovanile nel 2011, l’ex centrocampista fedelissimo di Cruijff da quando Johan lo pescò nel Volendam già ventiduenne, ha impostato il lavoro a De Toekomst (“il futuro”, come si chiama l’insieme delle giovanili dell’Ajax) riannodando i fili di Jany van der Veen. Tecnica al primo posto: per insegnarla, ecco una squadra di allenatori esplicitamente dedicati alla pratica individuale, fra i quali spicca l’amico Ruben Jongkind. Padre olandese e madre spagnola, non ha alle spalle una carriera da calciatore, ma una formazione internazionale nel campo delle metodologie di allenamento. Christian Eriksen, Toby Alderweireld e Daley Blind sono solo alcuni dei ragazzi cui fa praticamente da istitutore, curandone ogni aspetto della preparazione, dalla postura del corpo all’esecuzione del gesto tecnico. Il “Piano Cruijff”, di cui però Johan ha seguito lo sviluppo senza interventi diretti, non è una ricetta per vincere, piuttosto una bussola per orientarsi. Priorità al settore giovanile e all’insegnamento di uno stile di gioco offensivo. Su questo Jonk è un integralista: inevitabili gli attriti con Frank de Boer, allenatore della prima squadra, il cui stile manca di ritmo e aggressività. Così, quando nel 2015 la società decide di spendere 7 milioni di euro per prendere dall’Heerenveen il ventenne Daley Sinkgraven, Jonk si dimette, seguito da Jongkind. Oggi i due lavorano per la “Cruijff Football”, società di consulenza per club e federazioni nazionali che insegna a impiantare coltivare uno stile di gioco propositivo, a formare giovani calciatori e adottare strategie di mercato sostenibili. Da fuori guardano sbocciare i fiori che per anni hanno pazientemente innaffiato. «Sono curioso di vedere come andranno avanti», ha detto Jonk commentando la qualificazione alla finale di Europa League di un Ajax in cui brillano giocatori che è stato lui stesso a formare, da Davy Klaassen al giovanissimo Matthijs de Lingt. Come andranno avanti. Non se vinceranno la finale, non quali cifre raggiungeranno i cartellini di tutti questi ragazzi. L’essenziale non è che l’Ajax vinca una partita in un mondo bulimico in cui tutto quello che non è triplete è un fallimento. L’essenziale è che abbia una direzione da seguire. Un senso. Un avanti.