Il 4 luglio 1954 i giocatori dell’Ungheria varcano per tre volte la porta del loro spogliatoio nello stadio di Berna: la prima da grandi favoriti nella finale del Campionato del Mondo, la seconda da campioni del mondo, l’ultima da clamorosi sconfitti. La cerimonia di premiazione si è conclusa da pochi minuti, quando sentono bussare a quella porta maledetta. Nello stupore generale, l’allenatore della Germania Ovest, la squadra che ha appena trasformato la favola ungherese in una storia di eroi tragici, avanza verso il centro dello spogliatoio degli sconfitti. Non è venuto a distribuire pacche sulle spalle. Perché lui è Sepp Herberger e nel suo vocabolario non c’è mai stato spazio per nient’altro che non fosse calcio. Così va dritto dal suo omologo ungherese Gustav Sebes: «Avete fatto una cosa che ancora non conoscevo. Avete fatto giocare Bozsik libero, senza un avversario da marcare. Un’ottima variazione, molto pericolosa. La userò anch’io». Ora, Herberger ha passato ogni singolo giorno degli ultimi vent’anni a lavorare per questo giorno e non c’è stato niente che abbia potuto piegarlo – non gli insuccessi, non la guerra, non un Paese letteralmente a pezzi. E adesso che ci è arrivato, adesso che la sua Germania ha battuto i maestri d’Ungheria, adesso che “siamo di nuovo qualcuno”, come sarebbe stata riassunta l’esperienza del Mondiale svizzero, ecco adesso invece di brindare con i suoi giocatori, Sepp Herberger va a ringraziare gli avversari per avergli fatto vedere un espediente tattico che a lui non è mai venuto in mente.
Olimpionica a Melbourne, l’Ungheria è arrivata in Svizzera preceduta dalla sua stessa leggenda. Imbattuta nelle 31 partite precedenti il debutto Mondiale, appena otto mesi prima del torneo ha scosso il calcio inglese fin nelle sue fondamenta andando a profanare Wembley, prima formazione continentale a battere l’Inghilterra nel suo stadio. Non battere, in effetti: smascherare. Il 6-3 del 25 novembre 1953 apre improvvisamente una finestra sull’abisso che separa il calcio inglese da quello danubiano. Non è questione di individualità, nonostante gli ungheresi mettano in campo giocatori di classe immensa – il capitano ed eroe nazionale Ferenc Puskás, ma anche Hidegkuti, Czibor, Kocsis. Quello che stupisce di questa squadra è l’impressione che giochi senza sforzo, come se tutte quelle combinazioni di precisione assoluta e spaventosa eleganza sgorghino naturalmente. Fra le oltre centomila persone che si godono lo spettacolo di Wembley c’è anche Sepp Herberger che, munito del suo inseparabile quaderno, prende dettagliati appunti su tutto quello che vede. Così, quando al Mondiale si ritrova a dover affrontare l’Ungheria già nella fase a gironi, può spiegare ai suoi giocatori che cos’è che negli ultimi 3 anni ha reso imbattibile la squadra di Sebes. La classe di Puskás non sta tanto nei numeri da giocoliere – che comunque, nell’Ungheria come in qualsiasi altro sistema di gioco incentrato sul collettivo, sono tollerati ma non incoraggiati – quanto nella capacità di leggere in una frazione di secondo l’azione che sta per nascere. Di Nandor Hidegkuti si sa che gioca con la maglia numero 9 nonostante nasca come ala, ma in realtà lascia puntualmente il posto di centravanti per scivolare indietro e da lì creare spazi attaccabili da altri compagni. Un espediente tattico che non ha inventato Sebes e che Herberger conosce bene già da prima della guerra, quando ammirava Matthias Sindelar nel Wunderteam e nell’Austria Vienna. Anzi, l’ipotesi sui cui negli anni Quaranta si era retta la sua strategia era di impiegare il suo pupillo Fritz Walter proprio nel ruolo di Cartavelina.
Dopo la partita di Wembley erano stati gli stessi difensori inglesi a spiegare quale fosse il vantaggio di giocare con un centravanti arretrato: se il suo marcatore lo seguiva nell’arretramento, lasciava la difesa scoperta, ma se lo lasciava andare, quello avrebbe avuto la libertà di impostare il gioco a suo piacimento. Per questo, come spiega Tobias Escher nel suo “Vom Libero zur Doppelsechs”, Herberger ricorre alla contromossa, questa sì inaspettata, di non mandare il suo centrale di difesa Werner Liebrich in marcatura a uomo su Hidegkuti, bensì di lasciarlo Horst Eckel, centrocampista schierato davanti alla difesa, con Liebrich dirottato su Puskás. Quando poi i due ungheresi si fossero scambiati la posizione, i rispettivi marcatori non li avrebbero seguiti, ma se li sarebbero scambiati, secondo quello che è il principio della marcatura a zona, pressoché sconosciuta nell’Europa del 1954 in quanto arma difensiva. La contromossa riesce perfettamente, tant’è che per larghi tratti della partita tanto Hidegkuti quanto Puskás faticano a farsi vedere. Il capitano, fra l’altro, è in condizioni fisiche precarie, perché soffre ancora per i postumi di un duro intervento rimediato dallo stesso Liebrich nella partita della fase a gironi, quella in cui l’Ungheria ha dilagato fino all’8-3 e Herberger, invece, ha giocato il suo grande bluff mandando in campo una formazione ampiamente rimaneggiata, per andarsi a giocare la qualificazione nell’ultima e più agevole sfida contro la Turchia.
Quello con cui l’allenatore tedesco non aveva fatto i conti era la variabile Jozsef Bozsik. Bandiera dell’Honvéd – è stato uno dei pochi a non partecipare alla diaspora del 1956 -, era in campo a Wembley nella stessa posizione: come si vede dagli appunti di Gustav Sebes riportati da Jonathan Wilson in “Inverting the pyramid”, Boszik era autorizzato a scambiarsi la posizione con il solo Hidegkuti, che nel caso avrebbe preso il suo posto scivolando ancora più indietro. Era il punto di riferimento sia per la difesa sia per l’attacco, perché nella sua posizione potevano spostarsi sia il centrale Lóránt e il difensore di destra Buzánszky, sia l’altro centrocampista Zakariás. Herberger lo aveva visto, annotato e spiegato ai suoi. Rispetto a Wembley, però, Gustav Sebes si inventa quello che nessuno si aspetterebbe dall’Ungheria, esentando Bozsik da qualsiasi consegna difensiva: senza un avversario da marcare, l’ungherese crea intorno a sé una specie di bolla di libertà, dalla quale può creare un’immediata superiorità numerica in qualsiasi parte del campo si trovi, per lo più al di qua del cerchio di centrocampo. È tutta questa inaspettata libertà che manda in corto circuito il dispositivo di Herberger, perché i tedeschi si aspettavano di doversi guardare dalla marcatura di Bozsik e invece lui se ne va a spasso per uno spazio che fino a quel momento non sembrava nemmeno esistere, curandosi solo di far girare la propria squadra. Se la favola di Aranycsapat, l’undici d’oro della grande Ungheria, smarrisce il suo lieto fine nel fango di Berna, il modernissimo ruolo del regista davanti alla difesa è nato il 4 luglio.
«Bozsik. Ancora Bozsik, il mediano di destra dell’Ungheria, sulla palla», è la frase che si sente ripetere più spesso a Herbert Zimmermann, che racconta la partita per la radio tedesca. Bozsik ha come acceso un riflettore sullo spazio vuoto davanti alla propria difesa, ha mostrato al mondo che quello spazio esiste e il fatto che sia vuoto non significa che non sia importante. Al contrario: è proprio da lì che iniziano le azioni d’attacco ungheresi e a Berna si perde presto il conto di quante ne abbia iniziate Bozsik, sia con passaggi lunghi per evitare il terreno pesante sia con tagli rasoterra più forti anche delle pozzanghere. Da quello spazio vuoto non c’è pallone che non sia arrivato a destinazione. Per 85 minuti sembra che la storia dell’Ungheria campione del Mondo debba scriverla Jozsef Boszik, 28 anni da Kispest, bandiera dell’Honvéd. Il pallone ce l’ha lui anche all’85’, quando mancano cinque minuti alla fine e sembra solo una questione di tempo che l’Ungheria, rimontata da 2-0 a 2-2 nella ripresa, torni avanti e vada a prendersi il titolo. Solo che all’85’ Bozsik perde il primo e unico pallone della sua partita. Ne approfitta subito Hans Schäfer, che poi innesca la corsa senza domani di Helmut Rahn e il relativo epilogo, quello che è un miracolo per la storiografia, ma non per Sepp Herberger. Per lui di miracoloso c’era solo Bozsik così libero in quello spazio vuoto.