Non è importante tanto correre e correre,
quanto guardare e giocare a calcio.
Johan Cruijff
Ci sono aspetti del pensiero calcistico di Cruijff che sembrano più difficili da comprendere di altri, ma quello fondamentale della priorità del guardare, nessuno è riuscito a capirlo meglio di Ernesto Valverde. Il fatto è che il nuovo allenatore del Barcellona partiva da una prospettiva vantaggiosa. Al grande Ajax aveva aperto gli occhi la notte della partita della nebbia contro il Liverpool, a lui la macchina fotografica. Inseparabile compagna di tutti i suoi ritiri, avrebbe potuto diventare la sua vita alla fine della carriera da giocatore – se solo non ci fosse stato Cruijff. Il fatto è che l’allora allenatore del Barcellona si era accorto che quel piccolo attaccante basco, non particolarmente veloce e per niente forte fisicamente, aveva in realtà un dono rarissimo: sapeva guardare. Il paradosso di Ernesto Valverde è che sapeva guardare nonostante non vedesse quasi niente. Talmente miope da dover portare gli occhiali anche in partita, nei suoi primi anni di carriera gli avevano affibbiato il soprannome “Mortadelo”, dall’accostamento con il protagonista di un fumetto spagnolo – e non era esattamente un complimento. Il nome di battaglia vero, in compenso, glielo aveva trovato Javier Clemente ai tempi dell’Espanyol: Txingurri, “formica” in euskera. Con i Pericos Valverde era stato protagonista di una stagione da sogno nel 1987/88, chiusa al terzo posto nella Liga e con la finale di Coppa Uefa persa contro il Bayer Leverkusen. Prestazioni che non erano sfuggite alla parte blaugrana di Barcellona, che proprio nell’estate 1988 si apprestava a imboccare la via del successo affidando la panchina a Johan Cruijff. Sulla lista della spesa consegnata al presidente Núñez, il nome di Valverde è molto in alto. Così, nella disperazione dei suoi tifosi, che più tardi scriveranno il suo nome su una delle porte dello stadio dell’Espanyol (la numero 89, per la cronaca), Txingurri passa da Sarrià a Les Corts.
Una serie di infortuni riduce la sua esperienza al Barcellona ad appena 1271 minuti in due stagioni. Ma questo è solo quello che dicono le statistiche. Guardare per due anni il calcio nell’inquadratura di Cruijff – non c’è tabella che possa raccontarlo. «Ernesto era un calciatore atipico – ha ricordato l’allora compagno di squadra Luis Lopez Rekarte – Aveva una sensibilità speciale. Più che l’allenatore, voleva fare il fotografo. Quando se n’è andato, mi ha anche regalato due sue foto: la luna riflessa in una casa». 1271 minuti sono abbastanza per essere contagiati da Cruijff, ma non per meritarsi la conferma in quello che sta per diventare il Dream Team. Valverde si trasferisce a Bilbao, dove chiuderà la carriera con la maglia dell’Athletic. Il giorno in cui scade il suo ultimo contratto da professionista sa di liberazione: finalmente potrà dedicarsi esclusivamente alla fotografia.
Senonché gli arriva una telefonata dai dirigenti dell’Athletic, che gli offrono la panchina della squadra Cadete. Valverde esita: da un lato, non vede l’ora di trasformare in professione la passione della sua vita, dall’altro l’esperienza a Barcellona gli ha dimostrato che in fondo nel calcio come nella fotografia si tratta sempre di guardare. Allora tenta una mossa azzardata e chiede a un amico di rimediargli il numero di Cruijff. Con il suo ex allenatore non ha più parlato da quando ha lasciato Les Corts, non sa neanche se Johan si ricordi di lui, però ci prova ugualmente. Cruijff si ricorda di lui. Si ricorda talmente bene, che, secondo la leggenda, gli dedica un’intera serata e la telefonata si prolunga fino a notte inoltrata. Cosa si siano detti, è stato lo stesso Cruijff ad accennarlo molti anni più tardi, quando nel 2012 così descriveva il suo ex allievo: «Come giocatore era estremamente intelligente. Mi ha sempre comunicato il suo interesse per il calcio e la sua voglia di imparare». In ogni caso, il risultato del consulto notturno è che Valverde accetta la panchina dell’Athletic Cadete. Come più tardi Guardiola e Luis Enrique, la sua storia di allenatore comincia dai giovani.
In realtà, però, quella alla guida della Cadete è soltanto una tappa introduttiva, perché già dopo pochi mesi viene promosso vice di Jupp Heynckes in prima squadra, quindi è pronto per una panchina tutta sua – neanche a dirlo, all’Espanyol non vedono l’ora di riabbracciare Txingurri. «È un piacere veder giocare la squadra», dice Cruijff commentando alla tv spagnola, incurante anche della rivalità cittadina. Nel 2008 l’archivio fotografico di Valverde si arricchisce di una serie di scatti del Partenone, unico guardiano di un’Atene sempre più in crisi. È l’anno in cui diventa campione di Grecia con l’Olympiacos, che allena ancora quattro anni più tardi, subito prima che da Bilbao gli arrivi un’altra telefonata da consulto notturno: l’Athletic lo vuole come successore di Marcelo Bielsa, che nel biennio 2011-2013 ha scatenato nella capitale basca una sorta di isteria collettiva. Al San Mamés si sono vissuti momenti di passione così assoluta, che a Bilbao guardano smarriti chiunque osservi che l’Athletic non ha vinto niente. “Nessuno potrà toglierci quello che abbiamo ballato” – il detto milonguero si attaglia come nessun altro al calcio di Bielsa, impetuoso, viscerale e al tempo stesso spaventosamente razionale. Valverde mantiene l’orientamento offensivo del suo predecessore, ma lo inquadra nella prospettiva cruijffiana: il tratto caratteristico del suo Athletic sarà la rapidissima circolazione della palla.
Un’arma che permetterà ai baschi di avere la meglio perfino sui maestri del possesso palla: il Barcellona erede diretto di Johan, campione di tutto nel 2015, al San Mamés si ritrova clamorosamente a rincorrere i suoi avversari. La partita d’andata della Supercoppa di Spagna è una di quelle notti che fanno spalancare gli occhi: come sirimiri, la pioggia di Bilbao che bagna senza far rumore, così i giocatori dell’Athletic sono un rovescio da cui non c’è modo di ripararsi. Finisce 4-0, per i baschi è il primo titolo in bacheca dopo 31 anni. Ma per Valverde gli anni di Bilbao non si esauriscono a una lezione di calcio: mentre insegnava ai suoi a guardare, contribuiva all’apertura di una scuola di fotografia in città, inaugurata con una mostra dei suoi lavori. E pubblicava un libro, “Medio tiempo”, dove il bianco e nero si spoglia di ogni funzione narrativa e sembra piuttosto suggerire tutte le sfumature che abitano il frammezzo. Ci vuole un certo occhio per vederle.
E ci vuole un certo stomaco nel 2017 per ascoltare senza battere ciglio il direttore sportivo del Barcellona che ti offre la panchina dei tuoi 1271 minuti. Soprattutto se non puoi chiedere un consiglio a Cruijff. Ma ormai Valverde aveva imparato la lezione: calcio o fotografia, è comunque lo sguardo a fare la differenza.