C’è sempre un nome che manca, a un certo punto della storia. In tempi in cui si parla di sistemi di gioco come fossero monoteismi, la disputa del momento in Italia riguarda il 4-2-4. Da sinonimo di audacia a capro espiatorio di un’intera gestione tecnica nel giro dei 90 minuti della disfatta di Madrid. E allora si discute, si analizza, nel migliore dei casi si va alla ricerca delle radici, eppure a un certo punto manca sempre un pezzo. Il pezzo in cui si racconta come il 4-2-4 in Europa nasca non come personale affermazione di audacia e nemmeno come ribellione, bensì come soluzione collettiva di un problema.
Siamo all’inizio degli anni Cinquanta e anche la scuola calcistica danubiana non è più così impermeabile al WM, il sistema ideato in Inghilterra da Herbert Chapman in seguito alla riforma della regola del fuorigioco nel 1925. Rispetto al precedente schieramento a piramide, il WM prevede l’arretramento del centrocampista centrale sulla linea dei difensori (il centre-half diventa centre-back). Per non lasciare sguarnito il centrocampo, però, Chapman deve anche arretrare i due attaccanti interni in mezzo al campo, in modo da poter lasciare al suo posto il centre-forward, il centravanti che di norma è l’uomo più avanzato della squadra. Tuttavia, a vent’anni dalla diffusione sul Continente di quello che in Inghilterra è considerato, come ricorda Willy Meisl nel suo “Soccer Revolution”, “the way the game should be played”, in Ungheria un gruppo di allenatori formati alla scuola dell’MTK Budapest comincia a farsi qualche domanda. Una su tutte: esiste un modo per non sacrificare i due attaccanti interni, tanto importanti per i fraseggi avvolgenti del calcio a passo di valzer austro-ungherese? In fondo Chapman aveva pensato il suo sistema in Inghilterra e per l’Inghilterra, dove gli allenatori e il pubblico avevano sempre privilegiato un gioco estremamente diretto, per cui era molto più importante avere quattro gambe in più a contrastare in mezzo al campo che due opzioni di passaggio in avanti.
Márton Bukovi, una vita nel Ferencváros (4 campionati e la Mitropa Cup del 1928) ma solo dopo un campionato nell’Alba nella stagione 1925/26, nel 1947 viene chiamato alla guida dell’MTK Budapest, che a quel punto avrà pure cambiato nome in MTK Hungaria, ma è sempre la gloriosa erede dello straordinario laboratorio tattico fondato da Jimmy Hogan negli anni della Prima Guerra Mondiale e portato avanti dai suoi allievi. Bukovi non è mai stato allenato direttamente da lui, ma ha una formazione internazionale: da giocatore è stato in Italia e in Francia (dove ha vinto uno storico titolo nazionale con il Sète nel 1934), da allenatore ha lavorato (e vinto) a Zagabria. Non ha preclusioni ideologiche nei confronti del WM, ma capisce che rischia di imbrigliare il tratto più originale del gioco europeo. Tanto più se in squadra hai Nándor Hidegkuti. È lui la chiave della svolta tattica di Bukovi, il cui obiettivo è ora mantenere l’equilibrio difensivo pur riportando in avanti i due inside-forwards. E se invece degli interni, ad arretrare fosse il centravanti? In Inghilterra sarebbe una bestemmia, ma a Vienna Pepi Blum l’ha già sperimentato con successo nell’Austria con Matthias Sindelar. Hidegkuti, che di suo non sarebbe neanche un vero e proprio centravanti, perché gioca per lo più da interno, è il giocatore ideale per questo ruolo: non è ossessionato dal gol né innamorato dei suoi dribbling, è rapido di pensiero e tira bene da lontano. Il deep lying centre-forward, che tanto scompiglio avrebbe creato ai difensori inglesi di lì a qualche anno, prende forma all’MTK. Così, quando l’allenatore della nazionale ungherese Gustáv Sebes decide di farlo giocare al posto del centravanti titolare Palotás, in realtà sa che non sta correndo un rischio né peccando di audacia.
L’arretramento del centravanti, pur infoltendo il centrocampo di un uomo, non risolveva ancora il problema della stabilità difensiva. Bukovi allora ricorre alla stessa mossa di Chapman abbassando un altro centrocampista. Inizialmente solo di qualche metro, poi fino alla linea dei difensori, dove va ad affiancare il centre-back in un’inedita difesa a quattro, sebbene ancora asimmetrica. Ecco il 4-2-4 nella sua variante europea: una struttura offensiva dettata dalla necessità di non arretrare gli interni, che si regge sul presupposto di una circolazione di palla costante, che sfrutti il campo in ampiezza. Sono queste le basi per le fortune della Grande Ungheria della prima metà degli anni Cinquanta. L’allenatore della nazionale Gustáv Sebes farà in seguito un ulteriore passo avanti, quando, nel riprendere la mossa dell’arretramento del centre-half, definirà il ruolo del centrale di costruzione – il suo sarà Gyula Loránt. Si svilupperà così l’idea di avviare l’azione partendo da dietro, grazie alla visione di gioco di un difensore. Il più grande interprete del ruolo – non a caso esattamente nel 4-2-4 – sarà Velibor Vasovic nel primo Ajax di Rinus Michels – e forse non è un caso che l’attenzione per questo tipo di giocatori sia rimasta particolarmente spiccata in Olanda fino in tempi più recenti, basti pensare a Danny Blind.
Singolare è piuttosto che il nome di Márton Bukovi sia stato praticamente obliato, nonostante sua sia la firma sul manuale “Il calcio ungherese”, che nel 1955 spiegava il modo di giocare di Aranycsapat, l’undici d’oro di Púskas e Hidegkuti. Alla storia è passato piuttosto Gustáv Sebes, che per anni ha goduto del fatto che in Ungheria – dopo la nazionalizzazione delle squadre di club nel 1949 – in effetti l’allenatore che aveva la maggior licenza di sperimentare era proprio quello della nazionale. Nessun giocatore avrebbe avuto problemi a seguire gli insegnamenti di Sebes, in parte perché era naturale che la nazionale avesse la priorità e in parte perché l’ossatura della squadra era formata da giocatori dell’Honvéd, che erano stati allenati dallo stesso Sebes, e dell’MTK, che venivano dalla scuola Bukovi. È questo il passaggio che manca nelle analisi di oggi, la visione d’insieme del sistema di gioco e delle sue condizioni di sostenibilità.