Ci sono i giocatori normali, che hanno bisogno di un certo periodo di tempo per imparare la base del gioco posizionale – quando e come occupare ogni zona del campo. E poi c’è Stephan El Shaarawy, che ha sempre saputo come fare senza che nessuno gliel’avesse spiegato. Quando aveva 16 anni, di lui saltavano agli occhi – oltre al nome esotico sulle distinte – la progressione elegante e certi essenziali giochi di prestigio che sembravano non richiedergli fatica alcuna. Ma forse anche allora, quando illuminava la Primavera del Genoa, si sarebbe dovuto guardare altrove per capire che giocatore sarebbe diventato. I fuochi d’artificio delle finte, le luci colorate che fulminavano l’incrocio dei pali – troppo facile lasciarsi catturare lo sguardo così. El Shaarawy forse bisognava guardarlo al buio: quando non aveva la palla o quando la riceveva in un punto del campo non adatto alle magie. Perché allora si sarebbe visto che stava sempre dove doveva stare, che la posizione del corpo gli permetteva un tempo di reazione inferiore a quello di qualsiasi avversario che gli fosse addosso e che sapeva esattamente dove si trovava rispetto al resto della squadra, probabilmente anche perché non aveva bisogno di guardare il pallone per controllarlo o calciarlo.
Difficile pensare che nelle giovanili del Genoa o nel Padova di Calori prima e Dal Canto poi qualcuno gli abbia elargito la spiegazione canonica del gioco posizionale, tracciando alla lavagna le linee di suddivisione del campo. Affascinante credere che quelle linee ce le avesse già dentro chissà come. Passato come il vento per le nazionali giovanili per via del talento precocissimo, faceva la felicità di Arrigo Sacchi quando non c’era bisogno che qualcuno gli urlasse di rientrare per vederlo andare a dare una mano a ridosso della propria area pochi secondi dopo uno scatto sulla fascia. Se sbagliava un passaggio, se non gli riusciva una finta, invece di rimanere piantato a prendersela con la sfortuna o con i compagni, si rimetteva subito in movimento per prendere posizione o per fare spazio a un compagno. Cose che all’Ajax e al Barcellona insegnano ai bambini. Cose che per farle capire ai grandi ci vogliono mesi di allenamenti e concentrazione assoluta. Cose che Stephan faceva anche quando, non ancora ventenne, segnava a ripetizione nel suo primo semestre da titolare in Serie A con il Milan di Allegri, che pure l’anno prima gli aveva fatto fare una stagione di purgatorio. Abbagliati da tutti quei gol, dalla potenza che riusciva a mettere nel tiro nonostante la costituzione filiforme, gli occhi si perdevano tutto quello che succedeva al buio. Quando poi il Milan prese Balotelli e il piano di gioco della squadra si ridusse a cercare lui e lasciarlo tiare, El Shaarawy risentì dell’impoverimento tattico tanto alla luce quanto al buio: due soli gol nel girone di ritorno gli valsero la brusca retromarcia della critica, che addirittura arrivò a ipotizzare di essersi sbagliata nella valutazione del giocatore. Forse però il digiuno era solo un sintomo: una squadra tatticamente impigrita non riusciva a trarre utilità dal suo senso della posizione.
Un gol di testa – o di cresta, come diceva chi vedeva solo l’evidente – portò il Milan alla fase a gironi di Champions League nell’agosto del 2013, prima che una frattura al piede diagnosticata in ritardo gli portasse via il resto della stagione. Al rientro dalla lunga convalescenza trovò un Milan in cronico stato confusionale. Qualcuno parlò di cattive compagnie. Qualcun altro si divertì a tirare fuori l’ossimoro del giocatore con un grande futuro alle spalle. Nel 2015 il trasferimento al Monaco, dove però l’allenatore Leonardo Jardim non lo vedeva. Quando a gennaio 2016 sbarca a sorpresa alla Roma, a Fiumicino trova ad accoglierlo un assembramento di scetticismo, che comincia puntualmente a disperdersi non appena lui si mette a segnare. Le luci le vedono tutti. Il buio lo vede Luciano Spalletti, che con lui si arrabbia tantissimo perché lo vorrebbe più costante nella partecipazione in fase di possesso, più freddo davanti alla porta. Più illuminato, forse.
Magari ci voleva uno come Eusebio Di Francesco per sfruttare di El Shaarawy il suo gioco a luce spenta. Perché quando proponi cose tanto raffinate quanto di difficile esecuzione, è possibile che lui finisca per trovarcisi a suo agio. Così, uno degli espedienti su cui il tecnico della Roma sta insistendo di più, il cambio di campo a 180 gradi, richiede non solo precisione nel lancio, ma anche tempismo e capacità di discernere quando è il caso di ricorrervi e quando no. El Shaarawy possiede tutte e tre le capacità, con in più quella leggerezza innata che gli dà sempre un istante di anticipo sull’avversario – e che non sempre riesce ancora a sfruttare a pieno, questo sì. La cosa più bella della partita che la Roma vince a Torino contro i granata non è la punizione di Kolarov. È il cambio di campo che El Shaarawy si inventa al buio – sia nel senso che dalla sua posizione non può avere una visione esatta dell’altra parte del campo sia in quanto frutto di uno dei suoi movimenti in penombra. Quando il pallone gli arriva, lui si trova a pochi passi dal punto in cui la linea di centrocampo incontra quella del fallo laterale e rispetto all’angolo retto che le due linee formano è posizionato di trequarti verso l’esterno, quindi dà le spalle a praticamente l’80% del campo. Ma già prima di ricevere il pallone, lui ha deciso – perché evidentemente così è stato provato in allenamento. Lui sa già che calcerà con il destro e taglierà il campo in tutta la sua larghezza per servire dall’altra parte Florenzi, e non già dove il compagno si trova in questo momento, ma dove andrà a trovarsi non appena capirà quello che sta per succedere. Per controllare il pallone gli serve meno di un tocco, ma chi gli sta addosso si aspetta che lo metta giù e poi cerchi di girarsi. Lui invece non si gira, se non di pochissimi gradi. Da una posizione apparentemente inutile – perché un’ala sulla linea di centrocampo o si nasconde o passeggia, giusto? – fa partire questo lancio delicato e precisissimo, che regalerebbe a Florenzi un tempo di gioco, se solo questi si muovesse un attimo prima e non dovesse rincorrere il passaggio all’ultimo. Il Torino a quel punto deve bruscamente virare sulla sua fascia sinistra, ma El Shaarawy, invece di rimanere lì a contemplare il suo capolavoro, si disinteressa dell’azione e comincia a correre in verticale per costringere almeno un avversario a tenerlo in conto, anche se la palla è lontana. Difficile a dirsi, difficilissimo a farsi.
Eppure non resta un tentativo isolato nella partita della Roma, perché nel finale lo stesso audace colpo riesce al turco Çengiz Ünder, ma da una posizione più vicina all’area del Toro. Anche lui dà praticamente le spalle al campo. Troppo leggero e pulito per poter trovare spazio con un allenatore come Antonio Conte – che gli ha fatto guardare l’intero Europeo francese dalla panchina – El Shaarawy sta trovando nelle lezioni di Di Francesco elementi già sempre nelle sue corde. E quando si va sul difficile, lui ci arriva prima degli altri.