Johan Cruijff una volta ha detto che difficilmente il calcio totale si sarebbe potuto sviluppare in un Paese in cui non si giocava a hockey, dal momento che il movimento senza palla è la chiave di questo sport. Il che ci porta a una doppia osservazione. Primo: nella storiografia non si fa cenno al talento sul ghiaccio dei protagonisti del Grande Ajax, ergo forse l’affermazione di Cruijff va presa come un doppio (auto)elogio. Secondo: se invece prendiamo sul serio il detto cruijffiano, è poi difficile resistere alla tentazione di leggere la storia del calcio attraverso la lente della dicotomia hockey-rugby. Mentre il football britannico affonda le sue radici negli sport sull’erba (meglio, nel fango) dei college e delle università, in Unione Sovietica, almeno fino a dopo la Guerra, i calciatori sono hockeysti in versione estiva. Il che, oltre a essere una contrapposizione che impigrisce il pensiero, è anche discutibile dal punto di vista storico. Ma allora perché Cruijff tira in ballo l’hockey su ghiaccio per parlare della genesi del calcio totale?
L’occasione per cercare una risposta l’hanno offerta i Giochi Olimpici di Pyongchang, nello specifico la semifinale fra Canada e Germania. Agli spettatori estranei all’hockey ma non al calcio totale, non poteva non saltare agli occhi un dato: i Tedeschi tenevano la difesa altissima, praticamente sulla linea di metà campo. Il che, nella testa di detti spettatori, fa scattare immediatamente la diapositiva di Rinus Michels – i giocatori dell’Ajax che dimezzano le dimensioni del terreno di gioco nella finale di Coppa dei Campioni 1971 contro il Panathinaikos, quelli dell’Olanda ai Mondiali del 1974 o perfino quelli del Colonia che come una sola onda corrono verso il centrocampo dopo un calcio d’angolo contro. Succede poi una cosa curiosa: gli spettatori profani magari faticano a tenere dietro al disco, ma i movimenti dei giocatori li riconoscono eccome. Ecco un terzino che va incontro all’ala avversaria già prima che questa superi la metà campo. Ecco la linea difensiva che sale come tirata da un filo e fa scattare la trappola del fuorigioco – che, a proposito, funziona esattamente come nel calcio dopo l’ultima riforma. Non potrebbe essere un caso neanche se il caso esistesse. In mancanza di conoscenze in materia di hockey su ghiaccio, è sempre Rinus Michels la traccia da interrogare.
Nella sua enigmatica affermazione, Cruijff usa in modo quasi scontato l’espressione “calcio totale” e si capisce che il riferimento è al calcio sviluppato dall’Ajax di Michels. Il Generale Rinus, però, non amava questa definizione: «Voglio distogliere la gente dal calcio totale, perché questa non è la mia espressione», scriveva l’allenatore qualche anno dopo i Mondiali del 1974. «Sarebbe meglio chiamare il mio gioco pressing football. Questo è ciò che volevo creare con il mio Ajax e con la nazionale olandese: un gioco di base in cui tutti e dieci i giocatori di movimento spingono in avanti anche quando non sono in possesso palla. Pressiamo sempre in avanti». Si vede immediatamente come questa definizione di calcio totale differisca completamente da quella, corriva ma largamente accettata, di gioco senza ruoli fissi. Si vede soprattutto come per Michels la chiave del suo calcio sia il concetto di pressing, in una declinazione, per l’epoca, estrema. Sappiamo, però, che Michels non è stato l’inventore del pressing, bensì un suo brillante interprete: a contendersi il primato sono l’ucraino Viktor Maslov, allenatore della Dynamo Kiev dal 1964 al 1970 (ed è la tesi della storiografia che si rifà a Jonathan Wilson), e l’austriaco Ernst Happel, che Michels aveva potuto studiare piuttosto da vicino, visto che a portare in Olanda la prima Coppa dei Campioni della storia è stato il suo Feyenoord nel 1970 (posizione sostenuta, fra gli altri, da David Winner).
Trent’anni prima di Maslov, Happel e Michels, però, un altro personaggio sembrava confermare l’affermazione di Cruijff: Nikolaij Starostin, uno che nella sua vita aveva visto il meglio e il peggio. Moscovita, grande appassionato di sport, da ragazzo era stato hockeysta di primo livello, almeno finché non aveva cominciato a passare le estati sui campi di calcio fino a restare contagiato dall’english desease. In campo nella selezione moscovita che aveva preso lezione di possession-football dai baschi di Euskadi nella loro tournée sovietica del 1937, torna da dieci anni in un gulag siberiano per vedersi affidare la squadra più importante di Russia, lo Spartak, che con lui conosce il suo periodo d’oro negli anni Cinquanta. A lui si deve l’importazione in Unione Sovietica del third back in chiave “offensiva”: arretrando, il regista di centrocampo non diventa un difensore aggiunto, bensì un regista difensivo. Diapositiva: il centrale Velibor Vasovic che fa un passo avanti e cambia il modo di attaccare dell’Ajax – perché cambia quello di difendere.
Torniamo agli spettatori di Canada-Germania, che – per dirla con Platone – non sanno, ma sanno dove cercare. Hanno familiarità con l’idea che fare un passo avanti sia (anche) un grande espediente difensivo: per chi non ama il purismo olandese, c’è sempre il Guardiola di Barcellona. Agli occhi di questi spettatori, sembra proprio che l’hockey sia il paradiso di difesa alta e pressing a tutto campo. Sarà che il ghiaccio esalta la fluidità dei movimenti, sarà che lo spazio totale del campo non è un mero ricettacolo di eventi, perché il disco è sempre in gioco e le barriere laterali usate come sponde di fatto creano una virtuale superiorità numerica. A questo punto, non resta che verificare l’osservazione empirica di occhi non esperti – mediante interrogazione di fonti esperte, ovviamente.
Nel 1934, Thomas Patrick Gorman, un giornalista sportivo diventato allenatore, osserva che le squadre sembrano avere un impulso irresistibile a indietreggiare quando non sono in possesso palla. Ma cosa accadrebbe se facessero l’opposto e, anziché fare muro davanti alla propria porta, mettessero pressione agli avversari già nella loro trequarti, così da ostacolare il nascere stesso della loro azione offensiva? Trovando l’idea suggestiva, Gorman va dai suoi attaccanti e li invita a stare addosso ai giocatori avversari che cercavano di avviare l’azione partendo da dietro. Un attaccante avrebbe affrontato l’avversario in possesso palla già nelle vicinanze della sua porta, mentre gli altri avrebbero bloccato le linee di passaggio. Poi Gorman ordina ai suoi difensori di avanzare fino alla linea di metà campo, per intercettare un passaggio veloce o bloccare un avversario eventualmente sfuggito alla pressione degli attaccanti. I giocatori lo guardano con tanto d’occhi e scuotono la testa: se uno sbaglia, loro avranno il campo spalancato. L’esperimento sembra non funzionare, perché la squadra di Gorman perde quattro delle prime cinque partite giocate secondo i nuovi dettami tattici. Poi qualcosa scatta. I ragazzi di Tommy Gorman cominciano a surclassare un avversario dietro l’altro e a fine stagione mettono in bacheca il primo campionato della storia del club. Ora, il campionato in questione è la National Hockey League, Tommy Gorman è canadese e l’espediente tattico usato dai suoi Chicago Blackhawks è entrato nei manuali con il nome di forechecking. «Il campionato l’ha vinto il forechecking», diceva Gorman ai giornalisti, «Invece di barricarsi fuori dalla zona nemica, i Blackhawks continuavano ad andare alla carica. Il sistema ha funzionato meglio di quanto mi aspettassi». Questa è la storia raccontata da Uli Hesse nel numero di FourFourTwo di febbraio 2016. Argomento dell’articolo: il pressing. Al suo testo, come sempre ricco e approfondito, manca solo la citazione di Cruijff. Che magari si potrebbe parafrasare al contrario: è difficile che chi ama il calcio totale non si diverta guardando l’hockey.