Era tutto possibile, nell’estate del 1962. Proprio tutto. Anche che Alfredo Di Stéfano e Ferenc Puskas, già insieme con la maglia bianca del Real Madrid, si trovassero insieme anche con quella rossa della Spagna in un Campionato del Mondo, sorteggiati nello stesso girone eliminatorio del Brasile campione in carica. Il Brasile di Pelè e Garrincha, naturalmente. Il tutto sotto la guida di Helenio Herrera. Era possibile perché il regolamento della Fifa permetteva alle Nazionali di convocare qualsiasi giocatore in possesso del rispettivo passaporto, indipendentemente dal fatto che avesse già disputato gare ufficiali con un’altra selezione. Così Puskas e don Alfredo, le stelle del Real Madrid più titolato di sempre, cittadini spagnoli per chiara fama, si ritrovano fra i convocati di una Roja mai così poco iberica: oltre a loro, infatti, partono per il Cile anche l’uruguayano Santamaria e il paraguayano Martinez. Divertita, la stampa ribattezza la comitiva “l’Onu”. Helenio Herrera, che per ragioni di convenienza si è appena dimesso dall’Inter, visti non solo i sospetti di doping ma anche l’ostentata soddisfazione per l’eliminazione della Juventus dalla Coppa Campioni, conosce bene il calcio spagnolo dagli anni di Barcellona. Fin dall’inizio sa che la convocazione di Di Stéfano si risolverà in un conflitto fra il commissario tecnico e quello che in quel momento è il miglior giocatore d’Europa. Don Alfredo è una superstar, adorato dai ragazzini di tutto il mondo, incluso un esile quindicenne di Amsterdam che ogni volta che torna dagli allenamenti con le giovanili dell’Ajax, getta un’occhiata al suo poster lì sul muro. Di Stéfano accetta la convocazione pur sapendo che non giocherà un minuto per via di un infortunio muscolare, per il quale non basta neanche il rimedio miracoloso che il padre si è premurato di portargli direttamente da Buenos Aires. E così don Alfredo, la saeta rubia, giocatore di classe immensa, che in campo fa tutto e tutto fa fare ai compagni, terminerà la sua carriera divisa su due mondi senza aver mai giocato un Mondiale.
Puskas, invece, un Campionato del Mondo lo ha già disputato. Anzi, veramente lo ha quasi vinto. La sua ultima apparizione risale al 4 luglio 1954, quando a Berna pioveva e l’arbitro a pochi secondi dal 90’ gli aveva annullato il gol che avrebbe permesso
all’Ungheria di pareggiare la clamorosa rimonta della Germania Ovest. L’Ungheria d’oro, l’Aranycsapat, che non avrebbe dovuto aspettare i carri armati russi del ’56 per cominciare a sgretolarsi. Lasciare Budapest, attendere con ansia di potersi ricongiungere con la famiglia, è stato particolarmente doloroso per il colonnello Puskas. La Spagna e il Real Madrid gli hanno infine dato una seconda vita, anche se per prendersela l’ex bandiera dell’Honved ha dovuto perdere 18 chili. A Madrid ha trovato un compagno degno di lui, Di Stéfano, e un altro degno di stare accanto a entrambi, lo spagnolo Paco Gento. Il passaporto spagnolo è arrivato nel 1961, dopo una trasferta in Argentina per la quale Puskas ha usato ancora i documenti ungheresi. «Per me è stato un momento molto particolare, ma la Spagna mi aveva dato così tanto…», ricorderà nella sua autobiografia “Puskas on Puskas”.
Il Cile dell’estate 1962 è un Paese alle prese con le profonde ferite del terremoto che l’ha devastato proprio mentre presentava la propria candidatura alla Fifa. «Dobbiamo avere il Mondiale perché non abbiamo niente», chiosava il presidente della Federcalcio Carlos Dittborn. A tempo di record è stato costruito un nuovo stadio a Santiago, con tanto di vista mozzafiato sulle cime innevate circostanti. Un altro, più piccolo ma delizioso, si trova sulla marittima Viña del Mar. È qui che giocano le quattro squadre inserite nel gruppo due: i campioni del Brasile, la malinconica Cecoslovacchia, la Spagna multinazionale e l’orgoglioso Messico. Nella gara d’esordio, Herrera si aspetta una Cecoslovacchia talentuosa ma lenta, invece i Cechi ribaltano il ritmo basso in assoluta precisione, ispirati dal sontuoso interno sinistro Josef Masopust. Contro il maestro del gioco difensivo, decisiva è proprio la retroguardia ceca, che serra le linee e resiste alla pressione spagnola. A dieci minuti dalla fine, l’ala destra Stibranyi approfitta di un errore nel controllo di Reija e segna il gol vittoria. Le difficoltà si confermano nella seconda partita: contro il Messico c’è bisogno di un lampo dell’attaccante dell’Atletico Madrid Peirò per evitare l’aritmetica eliminazione con una giornata d’anticipo. Così, nell’ultima e decisiva sfida con il Brasile, la Spagna ha bisogno di una vittoria, perché il pari potrebbe non bastare per passare il turno. Nell’estate del 1962 potrebbe succedere di vedere in campo nella stessa partita il ventunenne Pelé, già eroe in Svezia nel 1958, Puskas e Di Stéfano. Ma siccome sia don Alfredo sia Pelé sono fermi per infortunio, il pubblico di Viña del Mar deve accontentarsi dell’ungherese. È lui a guidare un attacco stravolto dalle scelte di Herrera, che a sorpresa lascia fuori Del Sol e Suarez e schiera Gento all’ala sinistra. Brian Glanville, penna storica del giornalismo sportivo inglese e inviato nelle ultime tredici edizioni dei Mondiali, scrive che quella fra Brasile e Spagna è la miglior partita dell’intero torneo. Merito della Spagna, che per un’ora gioca con assoluta dedizione il calcio difensivo ma intenso per cui Herrera sarebbe passato alla storia. Al 34’ Puskas si inventa un dribbling in un centimetro quadrato, poi accarezza il pallone come solo lui sa fare e lo mette sul piede di Adelardo, che a quel punto deve solo appoggiare in rete. Magari è la volta buona, pensa Puskas. Magari l’estate 1962 gli ridarà alla rovescia quello che l’estate 1954 gli ha negato: allora ha perso da favorito, vuoi vedere che stavolta va a vincere contro ogni pronostico. Dall’altra parte del mondo, con la maglia di un Paese che non è il suo e sulla schiena anche un numero che non è il suo. Il 10 lo porta la stellina Suarez, il 9 sarebbe di Di Stéfano, ma comunque non è mai stato roba sua. In Cile, su questa maglia rossa ma non ungherese, Ferenc Puskas porta il 14 – poco più di otto anni, e il ragazzino del poster di Di Stéfano lo trasformerà nella sua firma.
Se non succede è perché il mancato Brasile di Pelé in realtà è il Brasile di Garrincha: un cross di rara poesia sulla testa di Amarildo, rimonta completata dopo il pari di Zagalo. “A manifest injustice for Spain”, la definisce Brian Glanville. Eppure è difficile scacciare l’impressione che davvero nell’estate 1962 tutto fosse possibile. Anche un 14 spagnolo di nome Puskas.