Quando sul bus che porta il Barcellona al piccolo stadio del Numancia si spandono quelle prime quattro battute di soli archi, così pulite e inesorabili, l’effetto è un po’ quello dell’inno alla gioia. Allegria. Solo che il testo della più celebre canzone dei Coldplay è tutt’altro che allegro: parla della dura vita di un re. Il 31 agosto 2008, mentre si avvicina al suo debutto sulla panchina dell’equipo de su vida, magari Pep Guardiola presta più attenzione alla musica che alle parole. Gli piace tanto questa canzone, è una fortunata coincidenza che l’abbiano passata per radio proprio ora che tutta la squadra è in viaggio verso il piccolo stadio della Galizia che ospiterà la prima in campionato del Barça. Fa venire voglia di volare. Magari resterà in testa ai giocatori. L’ideale sarebbe se riuscissero a far girare il pallone al ritmo di quelle battute così serrate.
Tre mesi e mezzo prima, il presidente Joan Laporta ha nominato Pep allenatore della prima squadra. Il che significa che il trentasettenne Guardiola eredita da Frank Rijkaard un gruppo che nelle ultime cinque stagioni ha vinto due volte la Liga e la Supercoppa di Spagna e una volta la Champions League – by the way, la prima dopo quella del 1992 firmata Cruijff. Il curriculum di Pep non va oltre un campionato di Seconda Divisione vinto alla guida del Barcellona B, ragazzi interessanti fra cui figurano Sergio Busquets, Iago Falque, Thiago Alcantara e Pedro Rodríguez. Diciamo che più che il curriculum, per Guardiola fa fede la lettera di presentazione di Johan Cruijff, consigliere non ufficiale ma molto ascoltato del presidente Laporta, e anche quella del direttore sportivo Txiki Begiristain, che nei primi anni Novanta è stato compagno di squadra di un giovanissimo Pep proprio nel Barça di Cruijff. È stato lui a convincere il numero uno blaugrana prima a dare all’esordiente Guardiola la panchina del Barcellona B e poi a preferirlo per la prima squadra all’allenatore che in quel momento è più d’ogni altro sulla cresta dell’onda: José Mourinho.
Pep ci ha messo tutta l’estate a farsi prendere sul serio un gruppo di stelle internazionali – Leo Messi su tutti, ma anche Eto’o, il capitano Carles Puyol e quel fenomeno di Thierry Henry. A dire la verità, non è per niente sicuro di esserci riuscito. E questo potrebbe essere un grosso problema. Fortuna che in mezzo a tante superstar c’è pure il ventiquattrenne Andrés Iniesta, uno che sta al calcio come Gauss sta alla matematica. Lui sembra aver capito quello che vuole Guardiola prima e meglio degli altri, e ne sembra pure convinto, ma vai a sapere se basterà. “Be my mirror, my sword and shield”, cantano i Coldplay, ed è un po’ quello che don Andrés sarà per Pep, specchio spada e scudo. Ma non ancora. Sul bus verso lo stadio del Numancia, Guardiola ripensa alla riunione tecnica che ha presieduto in hotel un paio d’ore prima: sarà stato abbastanza chiaro nel dare le indicazioni. Avranno capito che oggi bisogna cercare di aprire il campo (principio del calcio totale numero uno), perché il neopromosso Numancia farà le barricate davanti alla propria area di rigore? Che si deve muovere velocemente il pallone (principio numero due), perché altrimenti si fa il loro gioco? Che si deve avere pazienza (principio kafkiano numero uno), perché altrimenti si rischia di buttarsi confusamente in avanti e farsi infilare in contropiede? Come che sia, Pep si astiene da ulteriori verifiche e prima del calcio d’inizio i giocatori non lo vedono più.
“One minute I held the key, next the walls were closed on me”, canta Chris Martin. Proprio quello che succede al Barcellona: una manciata di minuti a ritmi alti, con i giocatori che vanno a pressare gli avversari nella loro metà campo e mandano al tiro Messi. Poi, al 12’, il blackout: l’esterno di centrocampo Bellvís riesce a sfuggire a Dani Alves sulla sinistra e a mettere in mezzo un cross che un Mario Martinez desolatamente privo di marcatura può aggiustarsi sul destro e depositare alle spalle di Víctor Valdés. Dei neanche novemila spettatori presenti, il più sconcertato di tutti è Guardiola: la sua squadra ha fatto esattamente il contrario di quello che lui aveva chiesto. D’accordo, la partita finirà con venti tiri del Barça contro i tre del Numancia e una superiorità schiacciante dei blaugrana nel possesso palla: ma a cosa è servito? Il Barcellona avrà anche tenuto il pallone, ma l’ha fatto girare troppo lentamente per poter creare dei problemi agli avversari. Come se non bastasse, invece di aprire il campo sugli esterni, la squadra ha attaccato quasi solo per vie centrali, dov’era inevitabile andare a sbattere contro il muro difensivo del Numancia. Ma non hanno capito proprio niente? Visibilmente contrariato, Guardiola dice ai suoi giocatori quella che diventerà una delle sue frasi ricorrenti: «Non dobbiamo perdere di vista la nostra idea».
Questa ossessione per l’idea – che sia lo stile di gioco a permetterti di vincere le partite – Pep l’ha ricevuta da Cruijff, ma non come un’eredità. Piuttosto come un contagio. Siccome c’è la sosta per le qualificazioni mondiali, passeranno quattordici giorni prima della successiva partita di Liga. Sono due settimane durissime. Alla fine di queste due settimane Pep dovrà presentarsi per la prima volta al Camp Nou dal allenatore del Barcellona. L’ultima volta che ci ha messo piede era il 2001, lui aveva trentun anni, le ginocchia distrutte e la testa piena dei triangoli di Van Gaal. Dovesse perdere pure la prima in casa, l’amore della sua gente gli varrà il perdono? Avversario del Barcellona il 13 settembre al Camp Nou è il Racing Santander, altra formazione il cui obiettivo è la salvezza. Guardiola deve fare a meno di Henry, infortunato, ma non è la sua assenza a sorprendere stampa e tifosi, piuttosto quella di Yaya Touré a centrocampo. Al suo posto Pep schiera per la prima volta in prima squadra quello che era il suo specchio la sua spada e il suo scudo nel Barça B: Sergio Busquets. I tabellini dicono che il Barcellona pareggia in casa 1-1 con il Racing, la classifica che i blaugrana hanno raccolto un punto in due partite, non esattamente un inizio entusiasmante. Cruijff, nel suo editoriale su ‘El Periodico’, scrive che “è il miglior Barcellona che abbia visto da molti anni a questa parte”. Guardiola è soddisfatto: l’inserimento di Busquets ha fatto bene alla squadra, che contro il Racing ha giocato finalmente come voleva lui. Anche i giocatori hanno capito di essere sulla strada giusta: al termine del primo allenamento dopo il pareggio con il Santander, Iniesta va a bussare alla porta del suo ufficio, ma non entra. Si limita a fare capolino sulla porta: «Non ti preoccupare, mister. Devi sapere che siamo tutti con te». E se ne va.
Nonostante l’iniezione di fiducia venuta dalla conferma che l’idea c’è e funziona, Pep ha bisogno di sentirselo dire da qualcuno per crederci fino in fondo. Ha bisogno di Cruijff – al quale dà e darà sempre solo del lei. «Come faccio a impormi con i miei giocatori?», chiede a Johan. Cruijff gli ricorda che l’esigenza dev’essere proporzionata alle possibilità tecniche, sportive ed economiche dei giocatori. Ai suoi tempi, lui non aveva problemi a prendere di petto un giocatore e dirgli qualcosa come “la tua prestazione non è all’altezza dello stipendio che prendi. Devi dare di più”. «Ma lei poteva farlo, poteva anche insultarci e darci degli idioti. Io non posso». La risposta di Johan è chiarissima: «Continua così, Pep. Alla fine funzionerà».
La prova del nove è la trasferta sul campo dello Sporting Gijón. «Se non vinciamo, sarò il primo allenatore della storia del Barça all’ultimo posto in classifica», dice Pep a Txixi Begiristain fra il serio e lo scherzo. «I giocatori non hanno occupato le posizioni corrette», non la smette di ripetere al suo direttore sportivo. «Le posizioni dipendono da dove si trova il pallone e noi non abbiamo rispettato questa premessa. Txiki, il miglior modo di difendere bene è attaccare bene e devo fare in modo che i giocatori lo capiscano». L’idea, appunto. Al Molinón Guardiola c’è stato l’ultima volta nel 1997, quando era capitano del Barcellona. Sul bus che porta la squadra allo stadio niente Coldplay, solo silenzio. L’idea. Busquets è confermato titolare accanto a Xavi e Iniesta. Controllare la partita, pressare alto. L’idea. La partita comincia con una specie di manifesto programmatico: dal calcio d’inizio, dieci giocatori del Barcellona toccano il pallone, tutti tranne Messi. In tutto si contano trenta passaggi in due minuti, finché Iniesta subisce fallo all’altezza del corner. Ora sì che la palla corre. All’intervallo il Barça è avanti 2-0, ma è nella ripresa che il Gijón scopre come l’area balugrana in realtà si trovi molto più lontano di quanto sembri. La squadra di Guardiola si pianta nella trequarti difensiva dello Sporting e non si muove da lì. Finisce 6-1 con Busquets migliore in campo. L’idea. “I used to rule the world”, come dicono i Coldplay. Il regno sorgeva dieci anni fa.