Nel calcio olandese c’è un confine molto sottile fra creatività e anarchia, e il problema di Bryan Roy è che ci camminava proprio sopra. Giocava nel ruolo con il più alto rischio eversivo – ala sinistra – in un Ajax che prima l’aveva accolto come il bambino prodigio portatore di grandi speranze e poi l’aveva messo alla porta in quanto incompatibile con il sistema. Paradossi del calcio totale. Paradossi che diventano scontro ideologico se a fronteggiarsi sono Johan Cruijff e Louis van Gaal. Siamo nel 1992 e l’Europa è ai loro piedi, dopo che i due hanno portato Barcellona e Ajax alla rispettiva conquista di Coppa dei Campioni e Coppa Uefa.
La gestione di Bryan Roy non sarebbe (più) affare di Cruijff, che lo ha sì scoperto e fatto esordire in Eredivisie non ancora diciottenne, ma non lo ha portato con sé a Barcellona. In questo ragazzino di Amsterdam, i tifosi dell’Ajax vedono una specie di piccolo miracolo, dopo stagioni in cui hanno guardato andare via campioni come Van Basten e Rijkaard, entrambi partiti per l’Italia. E poi Bryan ha quel sorriso da telefilm americano e quel dribbling da far impazzire i tifosi quanto gli avversari, che davvero viene da pensare che ci possa essere speranza anche dopo il terzo addio di Cruijff. Anche con Van Gaal in panchina, che ok, non potrebbe essere più diverso da Johan, però ha studiato con lui e sembra avere le idee perfino più chiare di lui. Il problema di Bryan Roy è che in queste idee lui non è contemplato. Anzi, peggio: è considerato incompatibile con le idee stesse.
Difficile da capire per chi non sa come vanno le cose in Olanda, dove la mentalità luterana è radicata talmente in profondità che, per ammissione degli stessi olandesi, chiunque si distingua viene guardato con sospetto. Per questo sarebbe fuorviante pensare al calcio totale come il trionfo dell’anticonformismo e della sregolatezza, dimenticando come fin dall’inizio tutti i protagonisti insistano sull’importanza della disciplina e come a volte la difficoltà stia nel conciliare collettivo e individualità – e si può stare certi che per un olandese verrà sempre prima il collettivo. In questo senso, il sistema sviluppato da Van Gaal con l’Ajax all’inizio degli anni Novanta rappresenta un paradigma: il talento individuale è talmente armonizzato con i meccanismi di squadra, che si fa fatica a dire a prima vista chi sia il giocatore più forte. L’eccezione è Bryan Roy.
Ha solo ventun anni quando Van Gaal viene promosso primo allenatore al posto di Leo Benhakker: il suo problema non è essere il più forte di tutti. Il problema di Bryan Roy è che questa cosa si vede. Lo vedeva benissimo Cruijff, che lo aveva eletto suo pupillo già nel 1987, lo vedono i tifosi e lo vede anche Van Gaal. Impossibile tenere fuori uno con quei numeri, eppure nella testa dell’allenatore c’è qualcosa che non torna. Bryan gioca titolare entrambe le partite della finale di Coppa Uefa 1992 contro il Torino, anche se in quella di ritorno ad Amsterdam – dove l’Ajax parte virtualmente campione grazie al 2-2 in casa dei granata – esce dopo poco più di un’ora. Dopo l’estate, l’allenatore che per la prima volta ha fatto vincere all’Ajax un trofeo internazionale senza Cruijff può permettersi una scelta radicale: senza tanti giri di parole, comunica a Roy che non rientra nei suoi piani, perciò si cercasse pure una squadra. Anche perché al suo posto ha preso dal Willem II il diciannovenne Marc Overmars, allora semisconosciuto. Per Bryan è un colpo durissimo, sebbene non del tutto inaspettato, ma a prenderla ancora peggio di lui è il popolo dell’Ajax, dentro e fuori da Amsterdam. Sui giornali compaiono una serie di attacchi a Van Gaal, accusato di sperperare un tesoro sia tecnico sia economico, mentre da Barcellona arriva immancabile l’opinione di Cruijff, che in una chiacchierata con i soliti Barend e Van Dorp non fa nomi, ma ogni riferimento non è puramente casuale: «Se hai un giocatore con delle alte qualità e non riesci ad avere un ritorno da queste, vuol dire che c’è qualcosa che non va». Nell’allenatore, ovviamente.
Sempre negli stessi giorni, il giornalista Hugo Borst in un’intervista con Van Gaal insinua che stia sprecando il talento di Bryan Roy e che stia anche danneggiando l’Ajax, facendo perdere valore sul mercato al giocatore. La reazione dell’allenatore (come racconta lo stesso Borst nel libro “O, Louis”) è furibonda: «Che ci sto a fare qui se non posso prendere delle decisioni, eh? Fa parte dei doveri di un giocatore seguire la visione dell’allenatore: Roy ha esaurito il credito». E non è finita: «Tutti a lamentarsi per Bryan Roy… dite che vale di meno perché non gioca, e allora? Io dico che l’Ajax non ci perde niente, perché adesso valgono di più Overmars e Van’t Ship. Se non volete capire quello che intendo, problemi vostri».
Visto che a questo punto non può fare altro che adeguarsi, Bryan decide di fidarsi di un giovane agente italiano di cui ad Amsterdam si comincia a parlare: si chiama Mino Raiola e ha solo venticinque anni, però ci sa fare, tanto che l’anno dopo porterà Dennis Bergkamp all’Inter. È sua l’idea di portarlo in Italia, dove già da alcuni anni gli olandesi stanno facendo la fortuna del Milan di Sacchi. Il problema di Bryan Roy è che la maglia rossonera che andrà a indossare non è quella di Gullit e Van Basten, ma quella del Foggia, piccolo club tornato in Serie A dopo tredici anni. «Ma dove mi hai portato?» chiede a Raiola quando arrivano insieme alla stazione di Foggia, non esattamente Amsterdam Centraal. Ma le prime impressioni, si sa, a volte ingannano. Bryan ancora non lo sa che è appena sbarcato a Zemanlandia (prima versione), lo scoprirà soltanto al suo primo allenamento con i nuovi compagni, quando trova ad accoglierlo questo giovane allenatore praghese con il vizio del fumo, che in due anni ha fatto del piccolo Foggia un laboratorio calcistico che ha dato spettacolo su tutti i campi d’Italia giocando un calcio che sembra avere una marcia in più rispetto alle avversarie. In estate gli hanno venduto Rambaudi, Signori, Shalimov e Baiano – e non si può dire che la piazza l’abbia presa bene – però il rendimento della squadra non sembra averne risentito più di tanto. Bryan esordisce come meglio non si potrebbe, segnando nella vittoria per 2-1 sulla Lazio il 22 novembre 1992, solo che appena qualche giorno più tardi si fa male ed è costretto a stare fuori tre mesi. Il problema di Bryan è che al Foggia la preparazione atletica – curata personalmente dallo stesso Zeman – segue tabelle massacranti e chi si ferma è perduto, perciò quando rientra non riesce a rimettersi al pari con i compagni e il campo lo vede poco.
Va molto meglio nella stagione successiva, quella in cui Zemanlandia tocca la vetta più alta eguagliando il nono posto in Serie A del 1992 e del 1965, in assoluto il miglior piazzamento della sua storia. Inadeguato per il sistema di Van Gaal, Bryan è un punto fermo di quello di Zeman, che fa giocare alle sue squadre un calcio più verticale ma ugualmente fondato sull’occupazione dello spazio e che richiede una dedizione alla causa collettiva non meno ferrea. Roy è un intoccabile del tridente ed è un piacere vedere tutti quei numeri eseguiti a velocità supersonica: per i tifosi diventa “la freccia nera” e ci restano malissimo quando, dopo il Mondiale americano del 1994, Roy lascia Foggia (insieme a Zeman e a mezza squadra) e segna la fine della favola di Zemanlandia.
Lo aspetta la Premier League, dove il Nottingham Forest si prepara a disputare la sua prima stagione senza Brian Clough in panchina e pur di averlo paga al Foggia la cifra record di 9,2 milioni di sterline. Per rendere meno traumatico il passaggio di consegne, la dirigenza ha affidato la squadra al suo allievo Frank Clark, terzino sinistro dell’undici campione d’Europa nel 1979. La prima stagione al City Ground è un successo: Roy gioca accanto a Stan Collymore e i suoi gol contribuiscono a trascinare il Forest fino a uno storico terzo posto in Premier, con relativa qualificazione in Coppa Uefa, la prima dopo il bando delle inglesi seguito ai fatti dell’Heysel. Il problema di Bryan Roy è che gli infortuni non gli danno tregua e rovinano quanto resta di una carriera che lui decide di chiudere a soli trentun anni. Ma è il 2001 e finalmente è tempo di tornare ad Amsterdam, dove l’Ajax non solo non l’ha mai dimenticato, ma è pronto ad affidargli una panchina del Toekomst, il settore giovanile.
Passano dieci anni, poi un giorno arriva la chiamata alle armi di Cruijff, pronto a un ruolo direttivo per risollevare le sorti di quello che definisce “forse il peggior Ajax dal 1965”. In prima linea nell’esercito che rapidamente si raduna ci sono i fedelissimi Wim Jonk e Bryan Roy, che da anni chiedevano una gestione puramente tecnica sia delle giovanili sia dei meccanismi di passaggio fra queste e la prima squadra. Il problema è che a un certo punto il consiglio direttivo dell’Ajax capisce che Cruijff rischia di controllare tutta l’area tecnica del club attraverso i suoi luogotenenti (oltre a Jonk e Roy, ci sono il direttore sportivo Overmars, l’allenatore Frank de Boer e il suo vice Dennis Bergkamp) e allora si inventa un colpo di mano nominando direttore tecnico Louis van Gaal. A questo punto la guerra diventa aperta, finirà in tribunale e ci vorranno almeno due anni prima che acque si calmino e tutti possano tornare al loro posto. Il problema non è che lavorare all’Ajax è maledettamente difficile, perché si discute tanto e si decide poco e intanto il tempo passa e la squadra è l’ombra del laboratorio di talenti che era. Il problema di Bryan Roy è che Van Gaal è disoccupato…